Cinquesensi

lug 2019

Sublime non sublime

Maimeri è il nome della più conosciuta marca di colori per artisti in Italia. 
Meno noto è invece quello del suo creatore, Giovanni Maimeri, detto Gianni. 
Nato nel 1884, Gianni Maimeri fu un artista milanese che col fratello minore, Carlo (un chimico), sperimentò nuovi sistemi di impasto delle cere con i pigmenti puri e migliorò, attraverso formule innovative, la qualità dei medium, delle vernici e dei solventi, ottenendo risultati sorprendenti sulla resistenza e la brillantezza dei colori. Quelle scoperte, nate dalle esperienze maturate sulla tela da Gianni, tra il 1923 e il 1925, spinsero i due fratelli a fondare una fabbrica che rivoluzionò l’uso e la diffusione del colore fra gli artisti. Maimeri fu un pittore legato agli ambienti colti della borghesia milanese, dipinse soprattutto ritratti, paesaggi, interni borghesi, café chantant e musicisti. Tra l’altro, fu anch’egli musicista. Nella sua intensa biografia, tutta documentata, resta però un lato oscuro e tuttora inedito. Una parentesi che rivela una sensibilità visionaria e onirica, accostabili ai valori dello Sturm und Drang ma intrisa di potente modernità espressionista, profondamente diversa da quella che esprimerà nella pittura degli anni maturi. Una foto del 1905 ci mostra il giovane Gianni seduto su un enorme masso posato al centro di una larga pozza d’acqua, un bacino roccioso nel quale si riversano potenti cascate. Uno scatto perfetto e rigoroso, al limite del fotomontaggio, è una messinscena in cui la posa adamitica che assume giustifica quel suo sguardo orgoglioso, meditabondo e fiero, quello di un giovane Saffo, alla Von Gloeden oppure di un eroe decadente caprese, alla Diefenbach. Qui Gianni ha venticinque anni, un corpo asciutto ed elegante, un futuro da eroe romantico. Siamo all’alba del nuovo secolo, e mentre in città si fa la rivoluzione futurista, lui, giovanissimo, si spinge alla scoperta degli Orridi dipingendo quadri dove
 il soggetto è il movimento dinamico della cascata che sgorga da una caverna oscura. Lo fa en plein air,
 anzi, da dentro la grotta, per riprodurre in diretta i colori luminescenti del fogliame spruzzato dall’acqua a bordo cascata. Così, rinchiuso in una gola naturale compie la sua personale e solitaria rivoluzione futurista into the wild, utilizzando per eseguire questi suoi primi dipinti, gli stessi impasti cromatici di Boccioni (penso a quello della Rissa in Galleria a Brera). È così che in Europa, parallelamente alle avanguardie del Novecento, si forma un nuovo spirito romantico che fa riferimento alla Natura, non solo come luogo d’ispirazione, ma come stile di vita, in empatia e in simbiosi con essa. Un’aria che spira tra simbolismo e teosofia e che riconosce i suoi eroi in Max Klinger e in Hans von Stuck, in Alexej von Jawlensky e in Marianne von Werefkin, che dal Monte Verità di Ascona alle scogliere di Capri invade col suo contagio gli animi di giovani artisti rivoluzionari ed estremisti che intendono ritrovare la verità di un’esistenza più autentica. Forse il giovane Maimeri intende intraprendere questa via in solitaria e lo fa, lontano dalle “congreghe” naturiste, rifugiandosi in un Orrido della provincia lombarda, probabilmente a Cunardo (Grotta di Cunardo, 1910), dove spesso amava recarsi con il fratello oppure forse a Bellano, come tante volte il suo omonimo nipotino Gianni aveva sentito dire in casa. Fatto sta, che i suoi dipinti, il primo di questi abbozzato su tavola all’età di quindici anni (Cascata, 1899), possiedono quella misura europea che dialoga con gli esiti più alti della pittura espressionista di matrice romantica.
Il “sublime orrido” dunque è il fulcro d’interesse di questo artista che sa portare alla luce cromie che emergono dal buio come fragorosi zampilli d’acqua, il suo spirito creativo si rivela così come
un fiume in piena, esondante di creatività e pulsioni culturali coscienti. Si quieterà in seguito, ma lo spunto giovanile è in caduta libera, proprio come il movimento dell’acqua in cascata. Un’energia che suggerisce lo spirito di questa mostra, che liberamente si muove fra il mistero simbolico dell’erosione carsica e l’insistente lavoro di scavo che l’acqua fa sulla pietra. Un movimento di segreti e scoperte, fra anfratti, grotte e gole che rappresentano “l’orrido” risultato di questa azione. Al buio del mondo, in luoghi inaccessibili e paurosi, che solo l’azzardo speleologico riesce a svelare, portando a galla qualcosa di inaspettato: è la memoria biologica stratificata e sedimentata, una natura rimodellata, a nostra insaputa, nel sottosuolo. Certe volte, però, il torrente s’ingrossa e le acque esondano dal proprio alveo trascinando via i sedimenti di superficie, portando alla luce pezzi e reperti ripuliti dai loro fronzoli, rimodellandoli e “sabbiandoli” fino a riconfigurare nuove forme di materia, come fossero testimoni dall’oscurità o fantasmi che si fanno inaspettata scultura.
Sono uno stimolo al nostro stupore e all’Orrido come stato d’animo, “diciamo uno stato d’occhi, noi non usiamo parole così pretenziose” (avrebbe potuto forse sottolineare Degas)! Lo “stato d’occhi”, così inteso, non è l’occhio ma una normale capacità di vedere le cose e toglierle dal buio dell’indifferenza. Dopo l’incontro con Maimeri, è accaduto nuovamente scendendo nel polveroso orrido delle cantine di Fonderia Artistica Battaglia, dove sugli scaffali o fra le ceste dei rottami giacevano sculture abbandonate. Dimenticate forse dai loro autori oppure soltanto ammassate con noncuranza, questi incerti monumenti concorrevano alla messinscena di una fortuita bellezza del non- finito, stimolando quella curiosità che s’era assopita nel dormiveglia di una capacità visiva indolente. 
Fin troppo viziata da schemi spesso prevedibili, quella vista, disordinata e improbabile, sembrava riconnettersi alla visione sublime di un paesaggio decadente e oscuro. Così, improvvisamente, i “sedimenti” di scultura che avevano smarrito il loro destino riportavano alla luce, con feroce evidenza, le tracce involontariamente scolpite di un’estetica rimaneggiata che trasformava il bronzo in una materia opaca e primitiva, in forme nuove che sembravano estratte da fucine di cenere. Se da un volto di donna spuntano i rami, se un cerbiatto perde un arto, se a un cavallo manca l’appoggio, se una ballerina danza senza braccia, se una serie di gambe camminano da sole scontrandosi, se una gigantesca zampa di gallina poggia sulla testa di una contadina, se un rosone di chiesa diventa un fiore, se due gambe eseguono la spaccata, incuranti di un corpo assente, se un acquaiolo trasporta ali d’angeli, vuol forse dire che allora un creatore ha perso la ragione? Oppure è il Surrealismo 
che si sta riorganizzando per rinascere secondo un automatismo spontaneo, proprio come sostenevano i teorici del movimento?
Questa messinscena da cantina altro non è che l’apoteosi dell’improvvisazione: sono le opere che si ribellano alla nostra volontà e decidono di “camminare con le proprie gambe” fregandosene dei loro presunti, presuntuosi autori/creatori. Per questi non c’è più alcuna chance di riconoscibilità, esposti in una mostra senza autorialità, persi in caduta libera dentro un vorticoso abisso. Niente e nulla nell’arte era mai caduto così in basso
 e dai sotterranei era riemerso per riprendersi la vita e la bellezza secondo un canone che non era stato loro assegnato.
La distanza fra la mano di chi le ha modellate e ciò che ora rappresentano è incolmabile, tunnel archeologici del presente sui quali potrebbe intervenire solo un audace Agostino Iacurci che potrebbe rispondere a queste domande subdole sul senso o non-senso dell’arte, capace com’è di far scomparire l’albero genealogico delle cose: amputando nomi e cognomi, rami e radici.
Un disinvolto osservatore che s’aggira nell’orrido della contemporaneità con leggerezza. Il suo non è più paesaggio dell’anima, ma “stato d’occhi” del presente, inteso come la semplice normalità del quotidiano, quella che tutti i giorni s’incontra al crocevia delle strade. Per averne conferma basterebbe vedere i giganteschi “vasi greci” che trasformano il muro cieco di un condominio a Ragusa in uno spropositato simulacro da museo archeologico disneyano di periferia, dove una fievole memoria di Magna Grecia si confronta con un’attualità architettonica fragile come un vaso di coccio e si disgrega in una periferia. Il murales è inserito in uno spazio di disordine urbano come un incipit di pulizia e riqualificazione che tende a compattare e connettere, con discrezione decorativa, i singoli palazzi del nuovo insediamento. 
Allora il sublime orrido della contemporaneità non è poi così lontano da noi se ci accompagniamo agli sguardi beffardi di Iacurci che sottrae a Winkelmann il canone della classicità per meticciarlo a colonne di cemento destinate a giardinetti pubblici e privati, dove i nanetti gialli, rossi, verdi, azzurri si sono ormai impossessati con “simpatica” prepotenza di un’estetica che ha superato tutto per riaffermare loro stessi come chiave di lettura di un’epoca equivoca come la nostra, di cui Agostino si fa glorioso interprete, soprattutto quando su una stupidissima colonnina ionica, ridipinta all’acrilico, ci appoggia sopra una mano di rosa bambola che ci saluta sbeffeggiando. Bye bye sublime!
Meglio, allora, girare per le strade del mondo e avere coscienza che il giudizio sull’arte appartiene a tutti. Questo, per esempio, si concede l’artista di Lecce, delegando il compito di capire il senso delle cose a un grande orecchio (Ear, 2017) poggiato a terra per udire gli echi dell’immenso flusso di notizie che cascano a pioggia dall’orrido della cronaca e avere sentore della bellezza egoistica dell’arte. 
“I feel colorful” dice una donna di colore osservando il grande intervento sulle mura di una scuola di Atlanta che Agostino ha dipinto nel 2016, una testimonianza verace che non ci allontana da quello che per ognuno di noi è il significato del sublime sconosciuto, da estirpare da una voragine di senso, affidato alla visione di un mondo che non è più, ma che finito non è, anzi continua in divenire, anche quando pensiamo di non saperlo più interpretare . “Just vision. More then meaning!”- soltanto questo dice Iacurci, perché sa che la visione può essere tutte e due le cose: sublime o non.