Cinquesensi

mag 2023

Sono io?

Di fronte a un ritratto dipinto ci si pone sempre l’interrogativo di chi sia quella persona. Tutte le altre domande sono secondarie, chi l’ha dipinto, chi sia il pittore, in quale anno, dove, perché, ecc… Allora, proviamo a trovare la risposta alla prima domanda, nel modo più semplice possibile, non nella pittura, che ormai staziona in una zona equivoca del nostro immaginario e che, nel tempo presente, permane in uno stato di indecifrabilità, piuttosto nel cinema d’autore o in quello d’impegno sociale che hanno in dote un linguaggio più diretto e esplicativo. Si potrebbe cominciare allora, non da un’immagine, ma restando sempre in ambito cinematografico, da una suggestione tratta da un dialogo, una semplice riflessione che il regista Marco Bellocchio sembra inconsapevolmente offrirci, aiutandoci a comprendere meglio le ragioni che stanno all’origine della mostra Volti
È una premessa, quella di Bellocchio, che si antepone a temi che diverranno poi più specifici e personali durante la sua conversazione, quando l’intervistatore gli chiede a quali nuovi soggetti stia lavorando. Di getto e per tutta risposta il regista spiega che sulla terra siamo in 8 miliardi, 8 miliardi di persone tutte diverse, ognuno con la propria storia, nessuna uguale all’altra, eppure, verrebbe da dire, in questa sterminata folla, apparentemente confusa, ogni sguardo meriterebbe un'inquadratura e ogni espressione meriterebbe una voce. 
Dunque, per quanto possa apparire banale, il succo è questo. Svelato il principio fondante del cinema (e potremmo aggiungere dei rapporti umani), da cui possiamo desumere che tutti i volti sono degni della nostra massima attenzione, è questo il punto fermo da cui ci piace iniziare. 
Potremmo poi ancora continuare ad approfittare del linguaggio cinematografico e mettere a confronto la nostra domanda iniziale - chi sia quella persona - e il dialogo che s’innesca tra le due protagoniste del film Ritratto della giovane in fiamme (titolo originale Portrait de la jeune fille en feu, del 2019), quando la regista, Céline Sciamma, con inarrivabile maestria e sintesi, mette in scena l’imbarazzo che si prova di fronte all’artista nel non riconoscersi alla vista del proprio ritratto dipinto. L’autrice (sua è anche la sceneggiatura) per farci capire che il ritratto dipinto non è mai una questione di tecnica, bensì di verità, va anche oltre nel dialogo a due. E per evitare travisamenti di significato vale la pena ‘ascoltare’ la conversazione tra le due attrici, che è la chiave di volta del film. Marianne, la pittrice, mostrando il quadro, chiede: non dite niente? 
La modella, Heloise, stupita, risponde: 
H: Sono io? 
M: Sì. 
H: Voi mi vedete così? 
M: Non si tratta solo di me. 
H: Come sarebbe “non si tratta solo di voi”? 
M: Ci sono delle regole, delle convenzioni, delle idee. 
H: Volete dire che non c’è mai la vita? Mai la persona? 
M: La persona è fatta di stati passeggeri, di aspetti momentanei che possono mancare di verità
H: Non tutto è passeggero. Alcuni sentimenti sono profondi. Che il quadro non rifletta bene me, è una cosa che posso comprendere; ma, che non rifletta bene voi è davvero triste! 
Questo dialogo rimette in scena la centralità dell’artista, non come interprete o come tecnico dell’artificio pittorico, ma di come colui che ha trasformato l’esperienza del guardare in un atto partecipativo e di responsabilità, con la capacità di aver saputo fondere gli sguardi e sovrapporli, finché, all’unisono, sono diventati conoscenza. Nella vita, nella persona e nell’opera. 
È un momento emotivo che si concretizza durante l’atto della posa e che pone sullo stesso piano sia l’artista sia il modello, senza distinzione di ruoli, in un disvelamento di relazioni emotive, oneste e vere, come quelle proposte nell’ormai celeberrima performance di Marina Abramović, the artist is present del 2010, dove s’è compreso per la prima volta, pubblicamente, come quell’energia cosmica, scatenata dall’intensità del guardare, riesca a tramutarsi quasi in un innamoramento dello sguardo e che fosse uscita dallo studio del pittore per diventare pura rappresentazione delle tensioni vitali. L’artista serba è riuscita nell’operazione di concettualizzare una tensione, capace di distorcere fino all’alterazione temporale, grazie all’effetto di uno sguardo condiviso che porta alla modificazione dello stato d’animo, a conferma che nulla di noi è prevedibile nella relazione con gli altri perché anche i pensieri variano durante questa esperienza. 
Indubbiamente, qualcosa di simile già accadeva da secoli, in forma del tutto privata, negli studi dei pittori che avevano messo in posa i loro modelli, per restituire loro una somiglianza nella quale riconoscersi e in certi casi per provare a “rubare loro l’anima”! Ma in che modo il pittore è riuscito a rincorrere questo stato d’animo in stretta relazione al tempo che passa e a fermare ciò che immobile non è?
Prima del cinema, secoli di pittura di ritratto hanno indagato fra le oscurità e le meraviglie dello sguardo, in particolare concentrando l’attenzione alla somiglianza somatica, agli umori, ai luoghi comuni, alle complessità psicanalitiche e all’infinita sfaccettatura dei caratteri. È da questa indagine che è nato il bisogno di rivedere le nostre sembianze, percepite e narrate da un punto di vista che non sia il nostro, con un'ottica diversa e con un altro “formato”. Questo ha fatto la pittura: sovrapponendo colore a colore, ha riaggiustato di continuo il tempo passato e l’ha riportato al presente, senza pentirsene mai, ha lavorato di getto, meditando e ripensando ad ogni ruga della pelle e inseguito il battito delle pupille, anche quando queste restavano lì, sbarrate, annoiate, fisse nel vuoto, come quando ci si prepara davanti alla camera da presa per una foto. 
La pittura è stata un sismografo attivo e sensibile ad ogni “vibrazione” tra l’artista e il modello, un meccanismo che la fotografia non s’è mai potuta permettere e di cui l’occhio del pittore sembra essere stato il canale sinottico privilegiato. Un ricettore in ascolto di un ticchettio sordo capace di registrare il battito energetico e il silenzio consapevole della vita che passa disvelando segreti inattesi. 
Si comprende così come la storia delle emozioni più semplici abbia una radice pura e sia radicata nella necessità originaria di esserci e sentirci autentici in relazione agli altri, senza che nessuno possa travisare la nostra identità con un selfie o uno scatto ripreso “al volo”, solo per poter dire, di quell’istante, c’ero anch’io. Da questo semplice bisogno nasce la pittura di ritratto ed è anche la ragione per la quale non non avrà mai fine, poiché la pittura ha una presenza fisica, concreta, tangibile, misteriosa e richiede dedizione e tempo: qui risiede la ragione del suo difficile dialogo col presente, “viziato” da forme perverse e omologate di rappresentazione dell’Io. 
La mostra Volti è un frammento narrativo lungo cent’anni, un focus surrogato di un sottoinsieme che comprende tutti gli 8 miliardi di volti possibili, ognuno degno di essere ritratto. È anche un riassunto espositivo di cent’anni di pittura e di un tempo apparentemente breve, concentrato in poche opere, dedicato a pochi quadri (inediti) di pittura italiana. Si tratta di sessanta dipinti appartenenti a collezioni italiane che raccontano un ritaglio d’occidente autentico, di un'area del mondo limitata, l’Italia (che sarà mai!), dove qualcuno, è stato a sua volta regista di un tempo che è fuggito e ha prestato attenzione a un volto che l’ha guardato. Questo coincide con il nostro invito: guardare.