Cinquesensi
giu 2022
La scena dell'arte, il teatro segreto
Ferdinando Bruni e Antonio Marras sono registi, attori, scenografi, costumisti e interpreti di un progetto che li spinge a confrontarsi quotidianamente sulla scena dell’arte. Lo fanno anche qui, ne Il teatro segreto, utilizzando una pluralità di mezzi che vanno dalla tradizionale tavolozza da pittore, alle voci recitanti, dalla conduzione di regia alla parola scritta, dal video alla fotografia, per allestire una messinscena che è, a un solo sguardo, finzione narrativa e metafora dell’esistenza. Un racconto a capitoli, una matrioska di svelamenti, un mondo di oggetti scovati, “trafugati”, trasportati, riportati alla luce e riallestiti; uno scenario compatto che restituisce a questa dimora nuove e inaspettate scoperte.
Siamo a Villa Carlotta al centro del Lago di Como, impianto neoclassico, rigore simmetrico, giardino all’italiana che, a gradoni scende al lago. Una curiosità: il primo e l’ultimo proprietario della villa portavano lo stesso nome GIORGIO II. Quello dei due a cui si deve l’edificazione di questo complesso, iniziato intorno al 1690, è quel Giorgio II (Clerici) detto Giorgione, uomo potentissimo e presidente del Senato di Milano. Invece l’altro, che non ha nessuna attinenza col primo, divenne proprietario della villa quando si unì in matrimonio con Carlotta, figlia del principe Alberto di Prussia e della principessa Marianna dei Paesi Bassi, la quale ricevette in dono dalla madre la casa sul lago. Questo Giorgio II fu il penultimo duca di Sassonia-Meiningen e regnò dal 1866 al 1914 (anno della sua morte). Fu un protagonista politico del suo tempo, ma divenne noto soprattutto come promotore delle arti teatrali, oltre che come scenografo, regista, direttore e mecenate della musica. E lo divenne al punto da essere soprannominato Theaterherzog (“duca del teatro”).
Giorgio II cambiò radicalmente le regole della regia teatrale, con lui la scena diventa opera d’arte totale, fondando nel 1870, a sue spese, una sua compagnia, “I Meininger”. Girerà il mondo in tournée per quasi vent’anni, sviluppando molti dei princìpi della scenografia e della recitazione moderne. Sua è l’invenzione del palcoscenico multilivello, suo l’espediente di utilizzare una luce realistica per il set e di giocare con gli effetti per dare tridimensionalità alle scene. Geniali innovazioni di un linguaggio che da quel momento non sarà più lo stesso. “L’effetto della rappresentazione non fu più cercato nell’abilità scenica di un singolo, più o meno valente attore, ma nella totale dignità artistica dell’esecuzione. La recitazione delle parti principali non fu più abbandonata all’estro dell’attore, ma studiata in relazione all’insieme dell’opera recitata: e furono studiati con lo stesso spirito anche la recitazione delle parti minori, i gesti delle comparse, la loro posizione sulla scena. Il duca rivestiva al medesimo tempo le qualità di sovrano e di regista e non transigeva. Aveva scelto come direttore della compagnia Ludwig Cronegk, abile organizzatore, esperto del mestiere e fedelissimo esecutore della sua volontà: ma interveniva egli stesso nelle decisioni, fissando definitivamente ogni particolare. E le prove dovevano essere ripetute finché l’unità di tono e di stile dell’esecuzione non fosse raggiunta. Un allestimento scenico restava in prova, se era necessario, per mesi.” *
Giorgio II nominò anche un’orchestra stabile per il proprio teatro di corte affidando, di
volta in volta negli anni, la direzione a compositori quali Hans von Bülow, Richard Strauss, Wilhelm Berger e Max Reger. La rivoluzione “intellettuale”, compiuta dal principe in ambito teatrale, fu così profonda che anche l’intera città di Meiningen, dove risiedeva, è ancora detta, appunto, Theaterstadt (“città del teatro”).
volta in volta negli anni, la direzione a compositori quali Hans von Bülow, Richard Strauss, Wilhelm Berger e Max Reger. La rivoluzione “intellettuale”, compiuta dal principe in ambito teatrale, fu così profonda che anche l’intera città di Meiningen, dove risiedeva, è ancora detta, appunto, Theaterstadt (“città del teatro”).
Con lui le regole della recitazione cambiarono radicalmente, così come mutarono il ruolo
e la posizione dei dipinti scenografici, non più concepiti come semplici fondali che fungessero da orizzonte prospettico, ma come veri e propri elementi interagenti con le strategie registiche. Queste radicali innovazioni fecero scuola, prima in tutta Europa e poi nel mondo. In Italia invece, “questa nuova impostazione faticò ad affermarsi a causa del potere dei grandi attori”. Da allora però, il teatro e le sue antiche regole non furono più le stesse. È noto infatti che Konstantin Stanislavskij s’inspirò direttamente allo “stile di gioco Meininger” per sviluppare il suo metodo e il suo insegnamento, continuato poi da Sergej Ėjzenštejn a Mosca e Lee Strasberg a New York, didattica che impartì poi direttamente ai suoi allievi dell’Actors Studio, all’epoca i giovanissimi Dustin Hoffman, Al Pacino e Robert De Niro. Ciò nonostante qui a Villa Carlotta non c’è traccia di questo straordinario vento di novità, nessun residuo di fondale teatrale, nessun sipario, nessuna locandina a far da contorno
ai bianchi marmi di Bertel Thorvaldsen.
e la posizione dei dipinti scenografici, non più concepiti come semplici fondali che fungessero da orizzonte prospettico, ma come veri e propri elementi interagenti con le strategie registiche. Queste radicali innovazioni fecero scuola, prima in tutta Europa e poi nel mondo. In Italia invece, “questa nuova impostazione faticò ad affermarsi a causa del potere dei grandi attori”. Da allora però, il teatro e le sue antiche regole non furono più le stesse. È noto infatti che Konstantin Stanislavskij s’inspirò direttamente allo “stile di gioco Meininger” per sviluppare il suo metodo e il suo insegnamento, continuato poi da Sergej Ėjzenštejn a Mosca e Lee Strasberg a New York, didattica che impartì poi direttamente ai suoi allievi dell’Actors Studio, all’epoca i giovanissimi Dustin Hoffman, Al Pacino e Robert De Niro. Ciò nonostante qui a Villa Carlotta non c’è traccia di questo straordinario vento di novità, nessun residuo di fondale teatrale, nessun sipario, nessuna locandina a far da contorno
ai bianchi marmi di Bertel Thorvaldsen.
Giorgio II rimase vedovo di Carlotta (la prima moglie) che morì di parto all’età di ventiquattro anni, dopo aver dato alla luce il quarto figlio. Pochi giorni dopo questo tragico evento il duca avrebbe perso anche il secondogenito di soli tre anni. Un dolore che non poté mai colmare, ma seppe rielaborare attraverso la
da allora, questo candido rifugio lacustre, patrimonio ricevuto da lei, rimase incontaminato. Uno spazio di primigenia felicità che doveva preservarsi intatto, e custodire un segreto, rivelato solo agli amici più intimi, come Johannes Brahms, che spesso lo accompagnava nelle giornate estive a passeggiare fra i viali del giardino o in qualche rara gita in barca.
Il teatro dunque. Eccolo riapparire come un’insospettata scoperta, proprio a Villa Carlotta, rifugio lacustre del duca, rimasto incustodito per anni a preservare la ricchezza di un patrimonio immateriale così vasto.
Per replicare il programma avviato negli ultimi decenni dell’Ottocento dallo stesso padrone di casa, colui il quale aveva smontato le scene, ridisegnato i costumi, cancellato le indicazioni di regia, nell’ambizioso tentativo di aprire un nuovo corso della storia del teatro, ci voleva immaginazione e una trovata che sparigliasse tutto, contravvenendo ancora una volta alle regole di scena.
Antonio Marras e Ferdinando Bruni hanno risposto all’invito e si sono fatti avanti. Hanno attraversato il giardino, sono saliti all’ultimo piano, goduto dello scenario mozzafiato verso
il lago e poi si sono diretti in fondo al corridoio, dove, a sinistra, hanno bussato a una porta chiusa da molto tempo. Poi sono entrati sommessamente e hanno sussurrato “Piano... piano, dolce Carlotta” risvegliando proprio lei, la vera padrona di casa. E col suo risveglio ha ripreso vita lo spirito della villa.
Antonio Marras e Ferdinando Bruni hanno risposto all’invito e si sono fatti avanti. Hanno attraversato il giardino, sono saliti all’ultimo piano, goduto dello scenario mozzafiato verso
il lago e poi si sono diretti in fondo al corridoio, dove, a sinistra, hanno bussato a una porta chiusa da molto tempo. Poi sono entrati sommessamente e hanno sussurrato “Piano... piano, dolce Carlotta” risvegliando proprio lei, la vera padrona di casa. E col suo risveglio ha ripreso vita lo spirito della villa.
Ora, riaperte le finestre dell’ultimo piano, quelle da cui Gian Battista Sommariva (secondo proprietario della villa) osservava i suoi dirimpettai Melzi a Bellagio, Ferdinando Bruni
e Antonio Marras hanno illuminano e ricostruito la galleria come una gabbia scenografica,
un tunnel prospettico, una Wunderkammer scenica per raccontare a Carlotta che cos’è stato il mondo e dove oggi siamo finiti: amare notizie d’attualità e fantasmi del passato che rimuovono gli spettri e le ombre di un mondo che non vuole cambiare e si nutre sempre delle stesse paure. In sala ci sono dieci grandi tele sulle quali il tempo presente è rappresentato per simboli, attraverso le parole di Dickens, o quelle di Poe riscritte da Ferdinando per ricordarci che
e Antonio Marras hanno illuminano e ricostruito la galleria come una gabbia scenografica,
un tunnel prospettico, una Wunderkammer scenica per raccontare a Carlotta che cos’è stato il mondo e dove oggi siamo finiti: amare notizie d’attualità e fantasmi del passato che rimuovono gli spettri e le ombre di un mondo che non vuole cambiare e si nutre sempre delle stesse paure. In sala ci sono dieci grandi tele sulle quali il tempo presente è rappresentato per simboli, attraverso le parole di Dickens, o quelle di Poe riscritte da Ferdinando per ricordarci che
i corvi sono il Pensiero e la Memoria, che beccano le nostre illusioni come un “cupo, goffo, sinistro, orrido e infausto uccello d’altri tempi”. Corvi sono anche quelli che danno il titolo a un famoso film di Carlos Saura (Cría Cuervos, 1976), e provengono da un celebre proverbio spagnolo che ci ricorda “che il male che coltiviamo in noi, se non viene spurgato, ci si rivolterà contro, che vivere in un eterno presente fatto di egoismi e cecità prepara un futuro senza luce, che pregiudizio e ignoranza danzano una danza facile, ma mortifera”. Bruni
me l’ha detto e ripetuto più volte, mentre fissava alle sue tele quelle parole riscritte come un avvertimento. Le sue immagini dipinte sono quasi tutte in controluce e spesso sul fondale rosso compare uno scheletro in cima a un sole nero con il corvo in spalla, “è la mortificazione, nel suo significato più profondo, ovvero essere ridotti all’osso della verità psicologica”. Tele selvagge e surreali. Sono meno edulcorate di quello che, a ben guardare,
si vede dalla finestra, oltre il giardino. I grandi cedri si stagliano sull’orizzonte del lago e un corvo è ancora appollaiato sul ramo più alto, punta a qualcosa e sembra osservare la vita, incauto della trappola che l’aspetta, come in un famoso dipinto di Pieter Bruegel.
Ma il punto d’osservazione è sempre lo stesso, il corridoio dell’ultimo piano, dove i due artisti ripropongono l’ombra del nostro tempo, compressa fra apparenti macchie di casualità, lasciate come bruciature di ferri da stiro troppo roventi e abbinati a scampoli sartoriali per essere ricuciti e riquadrati in paraventi asimmetrici, come un’onda lunga di ritratti improvvisati e fatti scomparire. Mischiate tra le macchie di fogli abbandonati, le mani di Marras spariscono dietro le cornici, come fossero supporti per altre icone, mentre lui intinge pennelli in fondi
di caffè, mischia vino a limone e infine lascia che un fiume d’inchiostro di china s’insinui tra le pieghe d’un collo di camicia che sbuca fuori da un telaietto di un vecchio quadro di paesaggio, credendosi un iceberg al Polo Sud. È un andirivieni di stati d’animo, di umori, di luoghi, d’incanti, di sole, di bruciature, manna per Marras, che incendia fantasie di manualità alla Barceló, rubate ai tornitori, prese dalle sabbie, estratte dai forni, capace
si vede dalla finestra, oltre il giardino. I grandi cedri si stagliano sull’orizzonte del lago e un corvo è ancora appollaiato sul ramo più alto, punta a qualcosa e sembra osservare la vita, incauto della trappola che l’aspetta, come in un famoso dipinto di Pieter Bruegel.
Ma il punto d’osservazione è sempre lo stesso, il corridoio dell’ultimo piano, dove i due artisti ripropongono l’ombra del nostro tempo, compressa fra apparenti macchie di casualità, lasciate come bruciature di ferri da stiro troppo roventi e abbinati a scampoli sartoriali per essere ricuciti e riquadrati in paraventi asimmetrici, come un’onda lunga di ritratti improvvisati e fatti scomparire. Mischiate tra le macchie di fogli abbandonati, le mani di Marras spariscono dietro le cornici, come fossero supporti per altre icone, mentre lui intinge pennelli in fondi
di caffè, mischia vino a limone e infine lascia che un fiume d’inchiostro di china s’insinui tra le pieghe d’un collo di camicia che sbuca fuori da un telaietto di un vecchio quadro di paesaggio, credendosi un iceberg al Polo Sud. È un andirivieni di stati d’animo, di umori, di luoghi, d’incanti, di sole, di bruciature, manna per Marras, che incendia fantasie di manualità alla Barceló, rubate ai tornitori, prese dalle sabbie, estratte dai forni, capace
di saldare terra con terra, o ferro con ferro sfiorando contatti estetici tra Egon Schiele e
Julio González, quello di “Monsieur” Cactus. Apre e chiude armadi, ma lo fa con grazia, muovendosi tra manichini in sagoma di dame e tra un occhio neoclassico e una tauromachia o una gualdrappa rossa che sventola sopra i paraventi, rovescia su due tavoli tutto “il suo condominio interiore” che s’è portato anche qui. Le gualdrappe rosse di Bruni sono appese simmetricamente lungo “la manica lunga” della galleria e sembrano mettere ordine a questa messinscena, che tanto sarebbe piaciuta al duca. Sono i cieli di Bruni, o livide striature di tramonti lacustri, gigantesche garze rosse con tracce di nuvolaglie che avvolgono il corridoio, un inno al giardino e alla natura che incontenibile irrompe.
È l’inizio della fine, è la grande scena dell’arte che svela le sue dicotomie: è una danza, è il nostro tempo che rivela a Carlotta che qualche speranza è stata disillusa, ma nulla è perduto, ci sarà un futuro per la natura se la sapremo accogliere. Un occhio ci guarda dall’alto, né complice né assertivo, né bianco né nero, è una palla da biliardo di ceramica lucidissima, appollaiata su un alberello surrealista, lasciata lì da Marras come una sfera di cristallo opaca, forse un invito a non farci troppe illusioni oppure è l’occhio del duca, perché no? Ferdinando Bruni, non la pensa così, ha portato da casa il suo canterano per chiarirci che cos’è natura
e che cos’è finzione. È un armadio ricolmo di stampe antiche da cui gli “orridi” lacustri esondano, dove, non uno, ma migliaia di occhi ci guardano come le foglie di una quercia, dove la danza è già in atto da secoli dietro ripetitivi alberi rossi e anche il giardino di Villa Carlotta è un’immagine a bulino fin troppo dettagliato e pochi tocchi di rosso azzurrato ci rispediscono al mesozoico del nostro immaginario, in una scenetta atemporale dove le ceramiche grigie di Marras fanno il verso di oche, conigli e galline. È una messinscena senza una fine, un controcanto della natura umana, animale e vegetale che grazie all’invenzione di due grandi artisti, dal giardino della villa risale nella galleria e restituisce luce a una storia che appartiene a tutti.
Julio González, quello di “Monsieur” Cactus. Apre e chiude armadi, ma lo fa con grazia, muovendosi tra manichini in sagoma di dame e tra un occhio neoclassico e una tauromachia o una gualdrappa rossa che sventola sopra i paraventi, rovescia su due tavoli tutto “il suo condominio interiore” che s’è portato anche qui. Le gualdrappe rosse di Bruni sono appese simmetricamente lungo “la manica lunga” della galleria e sembrano mettere ordine a questa messinscena, che tanto sarebbe piaciuta al duca. Sono i cieli di Bruni, o livide striature di tramonti lacustri, gigantesche garze rosse con tracce di nuvolaglie che avvolgono il corridoio, un inno al giardino e alla natura che incontenibile irrompe.
È l’inizio della fine, è la grande scena dell’arte che svela le sue dicotomie: è una danza, è il nostro tempo che rivela a Carlotta che qualche speranza è stata disillusa, ma nulla è perduto, ci sarà un futuro per la natura se la sapremo accogliere. Un occhio ci guarda dall’alto, né complice né assertivo, né bianco né nero, è una palla da biliardo di ceramica lucidissima, appollaiata su un alberello surrealista, lasciata lì da Marras come una sfera di cristallo opaca, forse un invito a non farci troppe illusioni oppure è l’occhio del duca, perché no? Ferdinando Bruni, non la pensa così, ha portato da casa il suo canterano per chiarirci che cos’è natura
e che cos’è finzione. È un armadio ricolmo di stampe antiche da cui gli “orridi” lacustri esondano, dove, non uno, ma migliaia di occhi ci guardano come le foglie di una quercia, dove la danza è già in atto da secoli dietro ripetitivi alberi rossi e anche il giardino di Villa Carlotta è un’immagine a bulino fin troppo dettagliato e pochi tocchi di rosso azzurrato ci rispediscono al mesozoico del nostro immaginario, in una scenetta atemporale dove le ceramiche grigie di Marras fanno il verso di oche, conigli e galline. È una messinscena senza una fine, un controcanto della natura umana, animale e vegetale che grazie all’invenzione di due grandi artisti, dal giardino della villa risale nella galleria e restituisce luce a una storia che appartiene a tutti.
Il teatro segreto inizia qui, fra le Favole della Buonanotte, fra le carte, le tele e i disegni, le cornici, le ceramiche, le fotografie e gli animali. Può considerarsi a tutti gli effetti un radicale omaggio alla natura e alla storia del teatro moderno e ai suoi fondatori. Una restituzione doverosa per riconnetterci a un presente possibile che guarda a un immediato futuro che sia anche un po’ diverso, cercato con forza fuori dalle norme costrittive dei consueti canali dell’arte e dalle false chiamate di una quotidianità già obsoleta.
* Treccani.it, alla voce “Meiningen”.
* Treccani.it, alla voce “Meiningen”.