Cinquesensi
mag 2023
La realtà non esiste "alla Battiato"
È l’anno zero del ritratto, nel territorio dove il desiderio di vedere chi siamo si rinnova da secoli, sempre nello stesso modo e riemerge da un substrato insondabile, che ci spinge a indagare, attraverso la nostra immagine, anche il nostro io, mai disgiunto dalla nostra anima. Ma a chi avremmo demandato il compito di replicare l’immagine di noi stessi e chi si sarebbe spinto così in là, fino ad osare di “rubarci l’anima”, e chi sarebbe l’esecutore e chi il mandante di questo furto?
Siamo stati visti, senza sorprenderci di sapere che qualcuno ha poi rimodellato le nostre sembianze, inconsapevoli di come davvero vorremmo vederci, o come vorremmo essere ricordati. L’immagine di noi è nelle mani di chi ci ha guardato, ci ha osservato e ha ridisegnato la nostra “icona”. La storia di questa umanità raffigurata, così come appare, sembra avere inizio a partire dal primo secolo a.C., dal ritrovamento di 600 tavolette dipinte con i volti di uomini che hanno abitato l’area di El-Fayum, a sud di Alessandria d’Egitto. Testimonianza di un luogo e di una grande civiltà che ci arriva intatta e sorprendente nella sua già evoluta serialità pittorica.
È la più antica testimonianza visiva di un repertorio iconografico vastissimo che ha restituito i volti di uomini, donne e bambini ancora lì a guardarci a distanza di molti secoli come fossero nostri contemporanei, senza apparirci altro da noi. Poi quest’impronta, questa attitudine a essere rappresentati, ha intrapreso la strada di secoli di pittura dell’uomo, del ritratto, dall’antico Egitto fino al Medio Evo, per giungere alla svolta dell’intelligenza artificiale, alla quale, ora, stiamo demandando e consegnando il futuro e la rappresantazione di noi. Siamo già qui. Avendo a disposizione millenni di storia della pittura e un’infinità di “scuole” e tendenze a cui
riferirsi, restano però molti gli interrogative su come interpretare e quale poetica attribuire ai dipinti di Franco Battiato, per una collocazione nel panorama artistico rispettosa e plausibile. Qualcosa si sta configurando, anche se distante da qualsiasi suggestione colta. Inoltre, non è compito di questa esposizione proporre un approfondimento, con la certezza peraltro, che non sarebbe ammissibile aggiungere nulla oltre l’illuminante contributo di Manlio Sgalambro, il quale, facendo ricorso a sua volta a Il senso della bellezza di George Santayana, sottolinea che “la forza di un quadro è quella di restituire un’assenza”. Non v’è alcun dubbio che in questo Franco Battiato ci riesca, ma c’è qualcosa di altrettanto rivelatorio e forse anche più stimolante e interrogativo, benché semplice e lapidario, nel giudizio che ne da l’amico Francesco Messina, quando, posto di fronte ai nuovi ritratti del maestro, afferma, con disarmante naturalezza, che “...ora, sarà anche vero che Battiato ha cominciato a dipingere, come lui sostiene, ‘sfidando violentemente se stesso’, sarà che ancora oggi è più attento alla fisiognomica dei suoi personaggi che alle regole accademiche del ritratto, ma di certo ha prodotto, magari involontariamente, ma con sorprendente coerenza, i dipinti più ‘alla Battiato’ che si potesse immaginare”.
Cosa significa allora essere "alla Battiato"? Intanto vuol dire essere un artista di grandissima fama, con la capacità di saper preservare a se stesso quel tanto di vita privata che spesso anche alla gente comune ormai manca. Lo si potrebbe paragonare a un pittore, che all’apice del suo successo sentisse il bisogno di fermarsi per indagare altro, qualcosa di profondamente nuovo e di diverso dai suoi dipinti. Confrontarsi in età matura con un linguaggio che sia anch’esso al di fuori della sua stessa portata, per aver saputo ricominciare a studiare, anche con l’aiuto di un maestro, la grammatica di una nuova lingua, senza porsi le domande più stupide - ho
fatto bene? Male? Come sarò giudicato? Ma la notorietà di un artista visivo, per quanto vasta, è limitata al recinto del suo circo e non deve confrontarsi con migliaia di fan che affollano i teatri e con l’interferenza mediatica che non da tregua. Superare questo scoglio e sapersi difendere con disinvoltura, vuol dire approssimarsi a somigliare - ‘alla Battiato’ - ma non significa ancora esserlo. Lui va oltre.
Qui si tratta di confrontarsi con un vuoto più profondo, spostando in avanti il limite del rischio, ascoltare il silenzio, non quello che tiene compagnia nei giorni di vacanza, ma quello a cui ci si presenta nudi e pronti a definitiva nascita.
“Il linguaggio è l’elemento fondante l’umanità dell’uomo” e forse per approdare a questo si potrebbero sperimentare vocalizzi, retrocedendo fino ai suoni vocali e stonati dell’infanzia, accettati senza vergogne, quelli che ci aiutano a ritrovare l’armonia tra noi e il mondo. Ecco che qualcosa allora comincia a somigliare ‘alla Battiato’, anche il pittore di fama, potrebbe gettare i colori e ricominciare di nuovo rimettendosi in ascolto di poche, ma autentiche tracce sonore, restituendo all’udito il compito e la capacità di identificare una tonalità che sia soltanto sua perché, come sosteneva Alfred Tomatis, “la cosa più importante da ricordare è che il cervello
non produce energia, la cattura, ed è l’orecchio che gliela fornisce” e che le tracce primordiali della nostra armonia risalgono a prima della nascita e, se ne siamo consapevoli, possiamo imitarle e essere a nostra volta dei recettori possibili, e responsabili. Può essere considerato un viaggio di semplificazione dello stile, accompagnato da una diversa prassi di ricerca, del tutto simile a quella di Süphan Barzani, per esempio. Un pittore poco noto, nato a Ionia il 23 marzo del 1945 (un comune italiano esistito tra il 1939 e il 1945 e poi cancellato). Di lui si sa pochissimo, che visse componendo musica e poesia, scrivendo film e dipingendo, ritirato in una zona collinare ai piedi dell’Etna. Qualcuno dice che i suoi dipinti sono di sapore bizantino,
qualcun altro ricorda la cadenza del siciliano antico di alcune sue prime canzoni, spacciate da lui stesso come ritrovamenti medioevali. Amava il deserto e ne contemplava il silenzio.
Alla pittura non aveva donato l’anima, ma un motivo in più di riscatto del suo essere artista.
Barzani è forse uno pseudonimo, è il nome di un condottiero curdo, morto in esilio negli Stati Uniti, Süphan è un vulcano inattivo che si erge a nord del lago di Van, in territorio armeno.
Però, forse è anche il nome di un poeta. Se questo stile di vita, lontano dal caos, sia sufficiente per definire cosa voglia dire essere artista o essere - ‘alla Battiato’ - non è chiaro, è una possibilità però per indagare i misteri, non si può dire se dell’anima, dello spirito o dell’arte, ma sarà un buon insegnamento per chi in arte “se la tira” e quindi un buon suggerimento per chi dall’oggi al domani avesse voglia di mettersi in ascolto, con umiltà, solo col desiderio di restituire a qualcuno un dono di credibilità e affetto che per Franco Battiato “è il sentimento che più si avvicina alla verità”. Un viatico anche, per comprendere meglio la sua pittura, che con certezza potremmo definire aurorale, lasciando che la vexata quaestio su come interpretarla resti per sempre aperta, ma che, se proprio e comunque fosse necessario trovarne a tutti i costi una risposta, sarebbe alla maniera di Barzani: “...picciotti, è finita così, senza un vero perché!”. (‘alla Battiato’)