Rizzoli New York

mar 2022

Fra atre e tessuto

Kenny era un ragazzo determinato, con una spiccata attitudine per l’arte. Alla fine degli anni Trenta, giovanissimo, decide di trasferirsi a New York per frequentare la Parsons, la scuola giusta per quelli che volevano sviluppare il proprio talento artistico, la stessa frequentata da Norman Rockwell e, dopo di lui, da tanti altri artisti, illustratori e stilisti; un’accademia fondata alla fine dell’Ottocento da William Merritt Chase, uno dei più apprezzati e talentuosi impressionisti americani (in un celeberrimo ritratto esposto al Metropolitan, John Singer Sargent lo ritrae in piedi, l’espressione sicura e autorevole, un’eleganza distintiva, la tavolozza in mano). Chase era un uomo attivo e influente a New York. Per i giovani fu un modello e un riferimento, colui che seppe integrare l’arte con le discipline con cui è imparentata, dalla moda alla pubblicità, dal design all’illustrazione, alla fotografia.
Chase era ormai scomparso da molti anni quando Kenny giunge alla sua scuola. La figura carismatica e poliedrica del maestro di Indianapolis (Nineveh per la precisione, attuale Williamsburg) aveva influenzato l’anima culturale del Paese, lasciando segni permanenti nelle future generazioni di artisti americani. In un simile clima Kenny non ha dubbi sulla scelta della scuola. Sono anni difficili, la crisi del ’29 è alle spalle ma il mondo si avvia verso il Secondo conflitto mondiale, l’arte si ritroverà a scandagliare un territorio di crisi e Kenny, terminati gli studi e incoraggiato da alcuni artisti più anziani, fra cui Moses Soyer e Stanley William Hayter, prende a dipingere con impetuosa continuità e nel 1945 apre un suo studio dalle parti del ponte di Brooklyn. 
La vita scorre inquieta e densa di sorprese, tanto che solo un anno e mezzo dopo è già in partenza per il Guatemala. Nello stesso mese Peggy Guggenheim, conosciuta grazie a Hayter, inserisce alcuni suoi dipinti in un’esposizione dedicata alla giovane pittura americana all’Art of This Century Gallery, la galleria aperta dalla collezionista nel 1942 su disegno di Frederick Kiesler, il teorico della Magic Architecture.
Tra gli artisti presenti con Kenny Scott alla mostra, in corso dal 3 al 21 dicembre 1946, ci sono Charles Seliger, Dwight Ripley, John Goodwin e David Hill. Di quelle esperienze espositive, che includevano anche opere di pittori più maturi, Peggy conserverà vividi ricordi, ricchi di aneddoti: “Avevo la cantina piena anche di tutti i quadri comprati durante le mostre di Art of This Century, come quelli di Baziotes, Motherwell, Still, Virginia Admiral, Pousette-Dart, Laurence Vail, Pegeen, Kenneth Scott, Janet Sobel, Rothko, Hirshfield e Gorky. 
Nel 1953, Walter Shaw e Jean Guerin, due miei vecchi amici che vivevano a Bordighera, mi chiesero in prestito dei quadri perché volevano organizzare una esposizione di pittori americani, che sarebbe stata patrocinata dal Comune, e perciò piuttosto ufficiale. Cocteau scrisse l’introduzione al catalogo e io accettai di prestare i quadri e andai a Bordighera con Laurence Vail e un mio amico di nome Raul”.
Ma proprio nell’anno in cui il nome di Kenneth Scott viene inserito a pieno titolo tra coloro che erano destinati a diventare gli indiscussi protagonisti dell’arte del Ventesimo secolo, l’artista attraversa un momento di grandi ristrettezze, tanto da essere costretto a lasciare lo studio newyorkese. Abbandona la pittura. Sconsolato ma non vinto.
Nell’arte vige una sola regola: dedizione totale. 
Gli artisti suoi compagni di strada anche se di lui poco più anziani, come Gorky, Pollock, Still e Rothko, non ne avevano voluto sapere di cambiare rotta di fronte alla miseria. Nessuno di loro avrebbe mai accettato di fare un passo indietro per mettersi al servizio di qualcosa di diverso. Soprattutto la “vocazione” dell’arte non prevedeva, e non prevede, compromessi. La scelta di Kenny è invece senza rimpianti: “Un giorno cominciai a disegnare tessuti, quella fu la fine della mia carriera di pittore”. Drastica, repentina e inappellabile, una decisione presa senza guardarsi indietro, anche quando diviene famosissimo, se non per incontrare ancora qualche amico artista, come Roberto Sebastián Matta, o per andare a trovare l’amatissima Peggy, a Venezia, a Ca’ Venier dei Leoni. Ma il talento è come l’acqua, non si ferma e da qualche parte sgorga, proprio come succederà ai suoi fabrics, e si estenderà negli anni, accompagnato da un continuo confronto con l’Arte propriamente intesa, in una ricerca che non si esaurirà mai. 
Dalla fine degli anni Cinquanta Ken Scott si farà conoscere al mondo come disegnatore di tessuti. L’apprendistato sarà la struttura portante e costante della sua capacità di innovare la grammatica delle forme a cui riferire la sua inesauribile capacità d’invenzione. Ogni nuova idea sarà sospinta da una dimensione di gioia, ironia e leggerezza, da una possibilità cromatica infinita e ogni volta esatta, come se un codice compositivo acquisito venisse nuovamente riplasmato per assumere una forma diversa dalla precedente.
Senza essere schiavo o vittima del sistema della moda, Ken Scott è stato il vero artefice colorista, con Walter Albini, Mariuccia Mandelli e Ottavio Missoni, della reinvenzione di quel mondo che stava aprendosi a un tempo nuovo, gettando le basi per una rivoluzione del gusto e della percezione, oltre che delle sue relazioni in ambito sociale ed economico. Una trasformazione radicale, pari solo a quella operata un secolo prima da Charles Frederick Worth, padre della haute couture.
Prima però di approdare ai fabrics e di varcare la soglia di ciò che sarebbe diventato il suo vero ambito d’azione, è forse utile provare a indagare come, per quali strade e attraverso quali modalità Ken Scott si sia avvicinato a quel mondo, fino a rivoluzionarne i codici identitari, lasciandosi alle spalle un’esperienza che continua a restare piuttosto sconosciuta, ma che costituisce, con presunta certezza, il suo vero asse formativo: una struttura creativa animata da una smisurata curiosità, che germoglierà poi, com’è noto, in uno stile personalissimo.
Molti suoi amici ricordano che, in età matura, sarà lui stesso a firmarsi, per vezzo, “Kennisky”. Lo farà su certe opere che generosamente dona, con un gesto di ironica riconoscenza verso il fondatore del Blaue Reiter che amava profondamente. È altresì noto che molti suoi cromatismi circolari siano riferibili alle invenzioni protopsichedeliche di Robert e Sonia Delaunay. Nel suo carnet d’inspiration, c’è spazio anche per vere e proprie variazioni sul tema tratte da un famoso dipinto di Paul Klee, Strada principale e strade secondarie, del 1929, frammenti reticolari derivati direttamente dal famoso dipinto (ora al Ludwig Museum di Colonia) come fossero un’assertiva e programmatica dichiarazione di stile.
Nella sconfinata immensità floreale del mondo di Ken Scott ci si può imbattere in un altrettanto florilegio di legami e citazioni, dove evocazioni provenienti dai mosaici del tempio di Galla Placidia di Ravenna sono mescolati a segni che arrivano, con assoluta naturalezza, alla banana che Andy Warhol aveva creato per la copertina di un famoso album dei Velvet Underground & Nico. Un mondo dove tutto è rielaborato e messo in relazione con disarmante, geniale disinvoltura, in una sfavillante e ironica spadellata pop, una spirale di ripescaggi che lo stilista reinventa per invitarci a scorribandare nella storia dell’arte, antica e moderna, dove a convenienza ci si può fermare per una sosta e fissare qua e là qualche fermo-immagine, preso a piacimento dalle verdure del mercato della Fruttivendola di Vincenzo Campi della Pinacoteca di Brera o dai giganteschi petali dipinti da Georgia O’Keeffe. Seguendo tale scia non sembrerebbe neppure troppo azzardato provare a confrontare il Mughetto dipinto all’acquerello del ’61 con un bellissimo minuscolo pastello che Graham Sutherland aveva disegnato negli anni della sua formazione al Goldsmiths College. Nell’ottica di questo paragone il bouquet bianco e verde di Kenny sembra essere solo un po’ più esplosivo e schiude le foglie sul foglio con meno timidezza, ma il confronto è un avventato rischio che trova concrete similitudini soltanto nella chimica delle sostanze odorifere di quel fragilissimo fiore che ha attratto con identico charme i due artisti.
Ma bisogna tornare ai suoi vent’anni, quando Kenny fiuta il profumo dell’arte. È il 1940, il ragazzo è a New York, circondato da artisti poco conosciuti. L’energia che li anima è esplosiva. Siamo agli inizi della guerra e “la cricca” di Peggy Guggenheim, che gravita intorno alla sua galleria, si somiglia tutta e in futuro si dividerà una gran fetta di storia dell’arte tra Espressionismo astratto e Surrealismo.
Ognuno in quel mondo ruba all’altro un poco di novità e d’invenzione, ma ciò che davvero li contraddistingue e li rende unici, sono le loro vite inimitabili e le loro svariate provenienze: Massachusetts, Polonia, Turchia, Francia, Lettonia, Ucraina, Pennsylvania, Wyoming, Olanda. Portano in dote una dose di forza e creatività vorace, un’inusuale propensione all’adattamento e alle diversità: sguardo rapace e transfuga. Questi caratteri si “spalmano” con naturalezza sulle loro esistenze ed è cosa ordinaria, tra di loro, poter assistere a esperienze che si svolgono come trame cinematografiche sbobinate oltre ogni credibile immaginazione. 
Kenny è in questa centrifuga. Frequenta, a partire dal 1940, l’Atelier 17, la stamperia di Stanley William Hayter, rientrato negli Stati Uniti proprio quell’anno. Da lì passano schiere di artisti quali Pollock, Rothko, Baziotes. Kenny gode del privilegio della giovinezza e osserva tutto. Lì conosce Peggy ed esporrà da lei nel 1944. Vede certamente il lavoro di Janet Sobel, di quasi trent’anni più vecchia, che espone qualche mese prima di lui alla galleria di Peggy. 
È la prima a usare il dripping, la tecnica di sgocciolatura caratteristica dell’action painting americana, anche se comincia a dipingere all’età di quarantatré anni, passando rapidamente da un figurativo naïf a una pittura gestuale, completamente inventata e primitiva. Di origine ucraina, sbarcata diciassettenne a Ellis Island dopo aver perso il padre, ucciso in un pogrom sovietico, madre di cinque figli, viene definita una “casalinga” da alcuni teorici dell’Espressionismo astratto, e forse per questa somma di caratteristiche non verrà mai risarcita del tutto del suo primato. I dipinti e le date però parlano chiaro. 
La fortuna e la fama toccò a un artista di vent’anni più giovane, Jackson Pollock, che nel 1948 finì assieme ad altri cinque tra le pagine di “Life”, con un servizio speciale intitolato Young american extremists. Un articolo e delle foto che fecero il giro del mondo. Più anziano della Sobel era Morris Hirshfield, un esule polacco che prima di essere fabbricante in proprio di pantofole lavora nell’industria dell’abbigliamento e anche lui solo intorno ai sessant’anni comincia a dipingere con un successo così folgorante che nel 1943 il Museum of Modern Art gli dedica una retrospettiva. Hirshfield, che con la sua pittura naïf e colta, attraversata da linee corrusche e morbide, potrebbe essere considerato un progenitore di Domenico Gnoli, morirà tre anni dopo. Il suo opposto è Laurence Veil, l’eccessivo ed eccentrico marito francese di Peggy, soprannominato “il re dei bohémien”, che anche dopo essersi separato da lei a metà degli anni Venti e averle dato due figli, continuerà a frequentarla e a esporre alla Art of This Century. Laurence è un intellettuale camaleontico, si dedica soprattutto alla scrittura, ma anche alla pittura e alla scultura, e, con le sue camicie a fiori, saprà anticipare la moda hippie degli anni Sessanta e irrompere nell’ingessato conservatorismo della moda londinese con un indiscusso stile dandy. Intorno agli anni Quaranta a New York gli artisti si ritrovano alla Waldorf Cafeteria, al Greenwich Village, poi verso la fine della guerra, alla Cedar Street Tavern. Jackson Pollock, William Baziotes, Robert Motherwell e Roberto Sebastián Matta sono fra questi e hanno qualche anno più di Kenny. Jackson è il pupillo di Peggy, tanto che esporrà tre volte nella sua galleria, ma sarà solo nel ’46 che per la prima volta si sentirà parlare di Abstract Impressionism, un termine coniato da Robert Coates a proposito di una mostra di Hans Hofmann. Il pittore tedesco, sbarcato a New York esule dalla Germania nazista, era stato maestro di Lee Krasner ancor prima che lei condividesse il suo destino con Pollock. Anche se con i due ci furono sempre grandi contrasti, fu comunque grazie a loro se a Hofmann fu dedicata una personale all’Art of This Century.

Se si dovesse inserire il lavoro di George Kenneth Scott fra le pagine di quegli anni, lo si potrebbe leggere con la stessa grammatica figurativa del The Fabled Garden di Baziotes del 1937 o del Diary of a Seducer di Gorky del 1945, collocato in un ambito in cui le radici del Surrealismo s’inerpicano dentro la psiche e indagano pulsazioni primarie, biomorfismi, sistemi procreativi, esplicandosi in narrazioni di sessualità e metamorfosi astratte e oniriche. In Arshile Gorky quel mondo espressivo si scontra in forma diretta con il suo antagonista Roberto Sebastián Matta, diventa gelosia e i dipinti si traducono in contorsioni interiori dalle forme fluide e annodate, hanno titoli mobili come The unattainable o Unknown. Kenneth Scott ne ricalca le forme, ma la sua storia e la sua visione sono radicalmente diverse, il suo immaginario è popolato di ectoplasmi inafferrabili e poco ascrivibili alla realtà, se non quando trasfigurata in vere e proprie spermatogenesi o forme falliche via via più esplicite, seppur coloratissime, e rimanda a paesaggi sempre meno onirici. Poi, di scatto l’artista si ferma, cambia rotta e quella domanda sul futuro resta per sempre inevasa, come congelata in provetta: è così. Punto, risponderebbe lui con un’alzata di spalle. Come quel giorno a Venezia, molti anni dopo, quando Peggy Guggenheim a pranzo, e in sua presenza, domandò a Tennessee Williams quali fossero i segreti per raggiungere il successo senza rischiare fallimenti. La risposta dello scrittore fu netta e passò alla storia: “Successo e fallimento sono parimente disastrosi”.