Cinquesensi

mar 2019

Altre storie

Biancaneve è addormentata. Giace immobile nella foresta con la testa appoggiata su un cuscino di fiori bianchissimi. Quando il Principe si avvicina per darle un bacio, lei estrae un coltello affilatissimo da sotto la gonna e... zac! con un colpo secco gli taglia la gola, decapitandolo. Questa scenetta splatter, in puro stile Tarantino, versione cartoon disneyano, è l’immagine che Gianluigi Colin m’invia come risposta quando lo invito a partecipare alla mostra “Lo strano colore del rosso”. Colin, nella sua risposta, è meno insidioso di Biancaneve e mi svela l’origine di quell’immagine. Proviene dalla pagina Instagram di Jerry Saltz, il più diabolico, temuto e, al contempo, onesto fra i critici d’arte. Questo piccolo fotogramma, ricevuto in forma di messaggio whatsapp è anche lo spunto per azzardare a definire cosa sia l’arte in una sola parola: l’inaspettato. Ovvero, come talvolta dietro a una certezza si nasconda il suo opposto. Spesso si tratta di un’immagine concreta che provoca nello stesso momento una suspense e un interrogativo. Si può anche obiettare che l’arte non sia soltanto questo, piuttosto, pura e semplice poesia. Se fosse così, allora ecco la poesia: 

Bruscamente la sera si è schiarita 
perché già cade la pioggia minuziosa. 
cade o è caduta. la pioggia è una cosa 
che senza dubbio succede nel passato. 
chi la sente cadere ha recuperato 
il tempo in cui la sorte fortunata 
gli rivelò un fiore chiamato rosa 
e lo strano colore del rosso. 

L’autore di questo frammento non è Disney, neppure Grimm (Jacob o Wilhelm?), né Colin né Saltz, ma Jorge Luis Borges che di suspense e di attese, di partite a scacchi col tempo, di labirinti del significato e di spaesamenti se ne intendeva. Del rosso non saprei dire, ma per molti è stata ed è una grande passione. Rosso è il nome di un colore, che in lingua spagnola si traduce semplicemente rojo. Il fatto anomalo è che el curioso color del colorado a cui Borges si riferisce nella versione originale è qualcosa che ha a che fare con il paonazzo, o con quel rossore che si assume in viso quando si subisce un soffocamento oppure si riferisce a quelle vampate provocate da un improvviso imbarazzo. I traduttori italiani di questo verso si prendono la libertà di definirlo una volta carminio, un’altra ancora scarlatto oppure semplicemente rosso. Per mio padre, Giancarlo Vitali, che ha ritratto tanti animali decollati, deposti incolpevoli su tavoli bianchi da cucina, era il colore del sangue. Ripensando alla favola dei Grimm, mi verrebbe da dire che un suo coniglio sgozzato (uno fra i tanti) sta al “principe azzurro” come Giancarlo sta a Biancaneve.
Ma lui non sgozzava conigli quindi il paragone non regge. Forse è più facile raccontare che con puerile innocenza ha dipinto spesso dei fiori, anche bianchi (o viola o gialli). E perché i fiori?
Semplice e naturale, così come nella poesia di Borges, c’è stato un momento in cui la sorte fortunata gli rivelò un fiore... 

Questa mostra è dunque il risultato di un racconto intrecciato di sms e di whatsapp che origina da un’idea rigeneratrice delle cose, una storia di cronaca familiare e, infine, un progetto dedicato a Giancarlo Vitali, inaugurato il 29 novembre 2018 a Bellano (nel giorno e nel paese dove lui è nato e vissuto). La frase che la intitola è stata rubata dalla poesia La pioggia di Borges e fa riferimento ad un colore che è stata una matrice identitaria nella sua pittura (sangue o non sangue). L’idea di costituire un nucleo d’artisti che raccontasse tutto questo prende spunto dall’immagine di un acquerello dedicato a Giancarlo dall’architetto belga Jan de Vylder, inviatomi il giorno della sua morte con un messaggio whatsapp: tre immagini in successione di fiori che si evolvono e si modificano fino a diventare una cromia astratta. La metafora di quel messaggio dipinto era chiara: far crescere qualcosa ricominciando da un’idea solo in apparenza semplice come lo sbocciare di un fiore. 
M’è sembrato che allargare questa riflessione alla rinascita delle cose, significasse già “gettare un seme”. 
Non so se Bellano sia un luogo arido e se qui non possa nascere o rinascere niente, ma Andrea Vitali, che con me segue questo progetto, mi suggerisce ironicamente di pensare a questo luogo più come a un’oasi. Un’oasi dove dissetarsi  o rigenerarsi appunto. Ho creduto che questa idea surreale dell’oasi fosse sufficiente per azzardare un invito ad altri artisti che su questo soggetto stavano o avevano già lavorato. 
Così ho immaginato una mostra non in memoriam ma che avesse nel suo DNA una sorta di linea di partenza già tracciata, una strisciata bianca dalla quale scattare per una nuova corsa. Giancarlo ci aveva salutati, ma la sua lunga ombra restava tracciata come un lungo cammino.
E più si allungava più sembrava voler affermare qualcosa di certo. 
Ma certo! È esattamente ciò che si vede rappresentato nel bellissimo, intenso e surrealista pastello di Lorenzo Mattotti dove all’imbrunire un uomo cammina lungo una via e dietro di sé la sua ombra si stira e si sfilaccia, netta e quando sembra perdersi, si trasforma in fiore. Oppure, all’opposto, nei neri turbinosi di grafite che Giovanni Testori, mentore e scopritore nonché amico di Giancarlo, dedica alle ombre lugubri di quattro grandi gigli esplosivi e carnali (già troppo testoriano!). 
L’indagine è dunque questa. Uno sguardo intenso verso il passato e uno sbilanciato sul presente per tentare di riaprire una nuova via. E l’idea del fiore è così potente che può diventare anche architettura, come la possente torre progettata da Mario Botta al Monte Generoso o come gli edifici interamente coperti di edera e di altre vegetazioni ripresi in sequenza dall’occhio fotografico di Gianni Pettena in una serie di scatti storici del 1978. Quasi una premonizione di ciò che sarebbe diventata la progettazione verde odierna o una riconfigurazione delle forme quando la natura se ne appropria: forgiving. E se l’indagine cominciasse invece da una mappatura territoriale per aiutarci a comprendere quali specie potranno attecchire o hanno già radicato nella nostra
terra? Anche le sterpaglie sono fiori. Ecco che cominciamo a catalogarli e a schedarli come fili d’erba allineati, alla maniera di Ugo La Pietra che, scavando un segno alla volta dentro il colore, ci suggerisce un modo per riordinare le cose e vederle per quello che sono, per poi voltare pagina. Siamo a un passo da quello che Franco Piavoli con la moglie Neria ha già realizzato e ampiamente concluso, raccogliendo e conservando tutte le erbe e tutti i fiori che stanno intorno alla loro casa, completando così l’elenco di una nomenclatura naturalistica che narra di una silenziosa storia di origini e appartenenze. Un rispetto che può essere sfregiato dalla nostra stessa incuria. 
I quadri di Alessandro Bazan trattano di questi incongrui scenari dove le foreste sono anche le nostre discariche, dove i rami degli alberi sono appendiabiti per la spazzatura. L’immagine che ci dipinge protagonisti nella nostra epoca è, ahinoi, anche e soprattutto questo: incuranti della bellezza che abbiamo sotto gli occhi e dell’artista che sembra chiederci di entrare nel quadro a ripulirlo affinché i fiori siano ancora fiori. L’unica che sembra abbia voglia di rimboccarsi le maniche è Enrica Borghi. Per lei la raccolta differenziata è manna. Riuscire a farci immaginare la bellezza della natura obbligandoci a osservare le bottiglie di plastica rotte è un’alchimia che riesce soltanto a lei. In quell’ammasso di scarti c’è luce, colore, armonia e persino un gradevolissimo suono, una voce sussurrata proveniente dal mondo fluttuante degli ukiyo-e, la stessa che udiva Rakusan Tsuchiya mentre preparava la xilografia con “i fiori d’ibisco e i tordi che ridono”... basterebbe il titolo! Appunto, e mentre volando altissimo qualcuno come Marcello Jori non si accontenta della profondità delle parole, ma le amplia aggiungendo poco alla volta, lettera dopo lettera, fino al culmine di una sorpresa poetica che si trasforma in un prisma di pensieri concatenati, complessi e simmetrici come solidi platonici, angolari e devianti, che si specchiano in geometrie nitide, finché il labirinto dei segni non si ricompone in un semplice gambo. Il fiore, ti verrebbe da dire, è questo. Un cristallo lucente appoggiato su un gambo che di per se è già poesia. Sta a noi interpretarla. La conferma viene da una grande foto tutta gambo di Brigitte Niedermair. Qui la natura è messa sull’attenti, come fosse un Mapplethorpe a colori con tanto di enigmi erotici. L’inganno sta nel sembrare dipinto. Mentre lo guardi viene da pensare che la fotografa s’è ammattita, ora s’è messa pure a dipingere. Chissà in quanti commenteranno - ma che razza di quadro! - prima di scoprire che quella rappresentazione è pura intangibile fotografia riprodotta su un panno vellutato come le carte indiane di Davide Benati, superfici d’avorio inondate d’acquerello, esondazioni che ricordano i petali dei fiori, un mondo meditativo composto di tanti petali, saldamente ammonticchiati uno sull’altro, senza che Virginia Woolf si scomponga troppo potrebbe aggiungere ancora, tutti arrossati, scaldati, ravvivati dallo stesso inesplicabile lucore. Si tratta degli sconfinamenti del disegno, del colore che si fa luce ed è quanto basta o basterebbe per lasciarci immaginare un mondo ricco di cromie, sia esso puro pigmento o abbagli di rosso fuoco, saremmo davvero a un passo dalle visioni psichedeliche di Marco Cingolani se Donato Piccolo non ci ricordasse che i suoi gigli rosso cuore dovranno vedersela con questioni meccaniche. Natura + ingegneria = arte. Forse è proprio da un incontro così tenace, da qualcosa che a che fare con l’energia atomica che può nascere, non un fungo, ma un fiore nucleare, una nube tossica che sprigiona invenzioni circolari e violastre, sfumate ed elettriche fino al punto in cui ci si domanda perché Alessandro Verdi abbia voluto dipingere un fiore? O perché non l’abbia mai fatto prima. A meno che anche lui come Ferdinando Bruni non consideri che sotto le apparenze estetiche ci sia solo la linfa vitale, il vero cuore che tiene in vita un’esibizionista corolla di petali, al punto che per loro è lecito immaginare che siano proprio le nostre arterie a trasformarsi in gambi di rosa cariche di sangue. E che sia amore e slancio verso l’intricato mondo naturale è una sacrosanta certezza se si presta la dovuta attenzione a un gambo di rosa appunto o a un pezzetto di corteccia per accorgerci che il fiore a quel punto può essere plasmato dalle nostre mani. Così facendo non saprai più se la scultura è natura o viceversa. O, addirittura, se è Alik Cavaliere che s’è spinto troppo in là, dove i due mondi coincidono e possono stare racchiusi in un’ampolla di fragilità. È solo il tempo che passa inesorabile su tutto e ci dice che le cose belle sfioriscono... Bruno Ritter mi dirai cosa ne pensi... E qui, non ci sono ere glaciali che tengano, né monasteri medievali, né antichi castelli con muri ciclopici che possano difendersi dalle ingiurie del tempo. La natura va da sé e fa il suo corso, inesorabile anche quando Vladimir Sutiaghin prova a fermarlo dentro uno scatto che scolora verso il seppia. Ci vorrebbe più distacco e una conoscenza profonda del senso del tempo, bisognerebbe lasciarlo scorrere sulle acque del fiume, nella direzione in cui Ferdinando Scianna riorganizza la visione secondo i ritmi naturali della vita. Saranno poi i colori e le varie fortune a dominarla. Per favorirne la buona sorte si potrebbe allora appendere fuori dalle case o lungo le vie delle lungta dei fiori, dipinti dalla mano di Michela Martello. Le lungta (copio pari pari da Wikipedia) «sono delle piccole bandierine di stoffa colorata che vengono appese sulla cima dell’Himalaya per benedire i luoghi nei dintorni. Si crede che le bandiere di preghiera siano nate con l’antica religione tibetana». Quanti sono allora i riti propiziatori legati alla fioritura? Un fiore che sboccia è già un miracolo visivo e una metafora della nascita, è un’allegoria benaugurante nel rito pagano e in seguito in quello cristiano. Così Francesco Lauretta si accontenta di consegnarcelo come fosse un augurio dalla storica infiorata di Scicli non rinunciando al gusto ironico nel titolo festa rossa. Non capisco invece perché Caterina Crepax afferma rosso dentro, quando invece il suo gigantesco wedding flower sembra uscito da una cascata di carminio. Sarà per la solita legge dei contrasti: non è detto che ciò vedi sia il vero significato delle cose, qualcos’altro e più complesso potrebbe nascondersi. Sconsiglio di spiegarlo a Letizia Cariello che di questi scambi è la vera maestra, capace di depistamenti semplicissimi, quasi ovvi all’apparenza che ti traslocano nella complessità geometrica dei rebus e degli enigmi. Un esempio: prendete un petalo di rosa e cucitelo sul fondale verde del prato. Fatto? Se ci siete riusciti, avete percorso una delle vie più brevi per conoscere che cos’è l’arte. Coniugare cose e faccende impossibili, arricchendo il tragitto di significati nascosti, come fra le trame di una tela. E quante sono le simbologie nascoste nei complicatissimi intrecci floreali dei tappeti persiani? Disegni che alludono ancora una volta alla complessità del mondo terrestre e della sua meccanica, ma anche a quello dell’aldilà con le proprie divinità. Proprio da lì Luca Pignatelli comincia a “tessere” per mettere a contrasto in maniera netta due culture, quella occidentale e quella orientale, in una strenua lotta fra icone. 
Ma il vero tappeto lo inventa Giovanni Frangi dipingendo con apparente semplicità un bosco su un velluto rosso. Sontuosità dei materiali e eleganza del segno. Non è tutto quello che 
vorremmo per l’arte, assieme al silenzio della contemplazione? No, certe volte anche un ritornello risveglia immagini indelebili che non ritrovano più il significato se dissociate da parole o da note. Ed è per colpa o per merito di un pastello slavato di Bernardo Siciliano con le rose un po’ sfatte e lo sfondo carta da zucchero se ogni tanto canticchio mi chiamano La Rosa Selvaggia, ma il mio nome è Elisa Day. Le canzoni si sa, hanno il potere di evocare immagini contrastanti e in successione. Basta un cambio di ritmo o un nuovo fraseggio o una citazione. Il marmo bianco di Massimiliano Pelletti rappresenta semplicemente questo, tutta la bellezza deve morire che riconsegno alle voci strazianti e profonde di Nick Cave e Kylie Minogue. Nel loro duetto di Where the Wild Roses Grow c’è sempre un sottofondo ribelle, un urlo lanciato e poi trattenuto per un’ingiustizia subita e da rivendicare. Fossero sufficienti le canzoni o l’arte per mettere pace. Sono invece solo carezze che si scompongo al primo duro contrasto. Ricordo un manifesto che rappresentava una rosa che spuntava rigogliosa da un elmetto ricolmo di terra con vicino la scritta PACE: era il progetto grafico (vincitore) che Albe Steiner aveva creato per il concorso indetto dal Primo Comitato per la Pace nel 1956 a Vienna. Oliviero Toscani credo provenga da quella scuola e il suo intento di rendere esplicitamente etica l’immagine di una mano di uomo di colore che stringe un mazzo di fiori coloratissimi, esibiti con sicurezza e orgoglio, voglia dire semplicemente questo: emancipazione, diritto, riconoscimento, uguaglianza e pace, attraverso un’immagine di onnicomprensiva lettura. Oliviero è il Delacroix della fotografia, sale sulle barricate dell’immagine per risvegliare le coscienze, affermando con sfrontata provocazione che la rivoluzione si può fare. L’immagine del mondo che cambia è anche la sagoma di un angelo che andandosene lascia sul campo la sua ombra nera, un ectoplasma che abbandona il suo ruolo da figurante e lascia il dipinto dal quale proviene. Mi riferisco all’Annunciazione di Botticelli, fotocopiata e ritagliata non più per scherzo da Gianluigi Colin, il quale, volutamente lascia lì, intrappolato nel vetro della fotocopiatrice, un giglio superstite della storia. Ma noi ora di quel fiore non sappiamo più realmente cosa farcene. Preferiremmo passeggiare leggeri e incauti, consapevoli che la vita riserva sempre sorprese inaspettate se è vero quello che può accadere nell’illustrazione di Franco Matticchio: 
una bambina si china per raccogliere un fiore dall’aiuola e non s’avvede che i sassi che la delimitano sono i denti affilati di un coccodrillo. Le proporzioni alterate del disegno generano l’effetto “Pinocchio nella bocca del pescecane” mentre tutt’intorno è solo un paesaggio di meraviglie. La giovane, come il principe Azzurro, non avrà il tempo di avvertire l’ineluttabile.. e fu così che Matticchio sconfisse Disney! 
Non mi sono dimenticato di Borges. Non me lo perdonerebbe mai. E nemmeno di mio padre che amava la pioggia e avrebbe desiderato sapere fino in fondo come si sarebbe chiusa questa poesia intitolata La lluvia. Non me lo perdonerebbe nemmeno Roberto Fanari che involontariamente ha modellato con un po’ di fil di ferro un plausibile profilo di un giovanissimo Giancarlo. Credo che quel volto rappresenti proprio lui mentre passeggia sul lungolago. Non l’ho mai visto con un fiore in bocca come nella canzone di Battisti, ma me lo immagino, mani in tasca sotto la pioggia, quello sì: 
questa pioggia che acceca i vetri 
rallegrerà in sperdute periferie 
le nere uve di una pergola in un 

patio che non esiste più. la bagnata
sera mi porta la voce, la voce desiderata, 
di mio padre che ritorna e che non è morto. 

Post scriptum 
Per me l’anno trascorso tra il 2017 e il 2018 è un tempo sospeso. Nel 2017 la mostra antologica che dedicai a mio padre, ancora in vita, si intitolava appunto Time Out
Ora, a un anno esatto da quell’evento, inauguro (inaspettatamente) un’altra mostra dedicata a lui, questa volta in suo ricordo. 
Col senno di poi, Time Out suona come una premonizione. Come se dopo un riassuntivo tributo fosse arrivato il momento per riordinare tutto, fare le valige e salutare.