Il Giornale
1990
La natura scatenata impressa sulla tela
Marco Vallora
Quello che stupisce in un artista nemmeno trentenne come Velasco, che è già nato alcuni anni fa artista completo e maturo –ogni volta che s'incontra la sua pittura - è il grado di progressiva e ulteriore maturazione e la sua capacità, ogni volta, di reinventare la propria ricerca, la propria arte, di procedere oltre. Questa volta la grande mostra, aperta sino a metà settembre a Palazzo Sertoli di Sondrio, in una meritata, nobilissima cornice di antico palazzo messogli a disposizione dal Credito Valtellinese, vede il pittore di Bellano cimentarsi, con una tematica delicata ed ambiziosa: lo sventramento della Valtellina, tragico anniversario, a tre anni dalla brutale catastrofe che travolse e ferocemente ferì la valle.
Velasco non è un pittore reali-stico-celebrativo, e nemmeno un cronista dei colori: dunque bisogna ben intendere questo suo «omaggio alla catastrofe».
La sua pittura, la forza del suo dipingere, va immediatamente e potentemente al di là dei dati di cronaca: è canto e d'or-rore, certo, ma senza limitarsi ad essere commento e reportage.
Uno psicanalista quale Winnicot ha spiegato che spesso le nevrosi sono come ascolti, premonizioni, annunzi di una grande catastro-fe, che poi spesso finisce per esplodere. Così, per certi ver-si, tutta la pittura «naturale» di Velasco, si dispone come l'attesa, la premessa, la preparazione a questo grande evento catastrofico, a questosconvolgimento tellurico.
Come se le sue antiche montagne, le sue catturate, sanguinanti onde giovanili, non fossero altro che il timido preludio, la mistica cerimonia preparatoria per questo grande poema della rovina, che deflagra e si esalta nel formidabile, impressionante,
gigantesco telero del 28 luglio, due metri per quattro metri e venti, che domina la settecentesca sala affrescata di Palazzo Sertoli. Un quadro a suo modo storico, memorabile che rimarrà nella cultura lombarda.
28 luglio: partiamo infatti dai titoli delle singole opere:
questa volta Velasco si sottrae al facile giochino, fascinoso e giornalistico, dei titoli suggestivi, lirici, che hanno un'aura, un riverbero di tipo letterario. Forse il dolore stesso dell'immagine di questa valle squartata come un bue, gli impedisce quel lusso d'artista che è sempre un poco evocazione ruffiana e complice. La verità tragica dell'impatto con quanto è costretto a vedere, non gli concede che la fredda, refertoriale oggettività del dato concreto: nient'altro che la data della visione, la traccia di un appunto telegrafico che si fa quadro, ripensamento estetico ebollizione anche morale.
Questa è del resto una mostra non solo di tele grandiose ma anche di minimi disegni folgoranti, di appunti-ferita. Diario della sofferenza, fermato sulla carta. Però, non che Velasco sia un pittore realistico, referenziale (questa stessa asfittica categoria viene come travolta dalla piena della sua matericità di colore, che forza i contorni, ma che non violenta i dettagli).
Velasco è pittore vero, perché fa della materia pittorica la ragione del proprio dipingere: anche se è il vedere, lo sguardo sul reale a dettare per lui il titolo, a condizionare il quadro. Così è ridicolo, con lui, domandarsi se sia ancora un pittore figurativo oppure un artista astratto, patetiche distinzioni da critica anni Cinquanta (basterebbe lo splendido 20 luglio a dimostrare l'inanità di questa dicotomia). Semmai Velasco è un artista alchemico, che provoca la memoria, che chiede il coinvolgimento della stessa natura, nel tentativo di riprodurre su tela il miracolo irripetibile del paesaggio cosmico (ecco la devozione al dettaglio che Pascal suggeriva essere la vera divinità). E sta a rivelarlo quell'enorme bolla alchemica che in 18 luglio si solleva pneumatica sopra le macerie di vita, planando sul fuoco di fango, che ha travolto i contorni del reale. Alla base della tela, Velasco, per la prima volta - come sconvolto dalla sprecata, selvaggia massa di rifiuti - chiama a collaborare la vera realtà, cocci, lische, brandelli di stoffa, sovrapposti a collage, come in un ready made;ma tutto questo come per purificare la terra, come per guadagnarsi il diritto alla trasparenza dei cieli, alla lieve matericità dei suoi travagliati, miracolosi sfondi.
L'arte come macchina per ricreare il portento della natura. E allora, forse, si spiega meglio anche il bellissimo titolo complessivo della mostra, cioè «Paesaggio cancellato». Attenzione, «Paesaggio cancellato» senza articolo, non «Il paesaggio cancellato», che avrebbe qualcosa di troppo superbo, suonerebbe troppo programmatico, metafisico. Invece, «Paesaggio cancellato» come evento che coinvolge l'artista, che scuote il visitatore, che chiama a raccolta come le vecchie campane di paese. Un accadimento vissuto con sentimento. Non nel senso che la natura sia scomparsa, obliata, anzi. No. «Paesaggio cancellato» perché la natura scatenata rompe gli argini, scompagina la visione, scardina ogni prospettiva educata. In questo senso c'è un quadro emblematico, non si dice il più bello, ma certo il più rivelatore della mostra, 26 luglio: è come una ormai informale fine.
stra, travolta dalla piena, invasa dal lercio lenzuolo di melma, fango, catrame. Per un attimo ancora, eroico, squilla il vinto color legno dell'intelaiatura assediata. Ma potrebbe benissimo essere anche un meta-quadro, un quadro-manifesto, massimamente rivelatore della poetica di Velasco. Potrebbe anche essere il retro di una tela, nello studio, travolta, violentata da questa piena di colori e sentimenti e rancori. La natura che irrompe senza mediazioni sulla tela, direttamente dal tubetto del reale. E non stupisce, del resto, che nel suo bellissimo testo introduttivo, Roberto Tassi, come tutti gli esegeti di Velasco, del resto, torni a parlare di Romanticismo. Perché, sia pure romanticismo modernissimo, post-informale, iper-novecentesco, la matrice è pur sempre la stessa: il kantiano stupore di fronte all'irrompere fragoroso del sublime naturale. E forse proprio in questo incantesimo dell'accadere immobile, appunto del bloccato sopraggiungere della catastrofe immane, che travolge l'opera dell’uomo ma che telluricamente ritrova forza e nutrimento proprio dentro la propria stessa ciclica distruzione, consiste forse la grandezza segreta della pittura di Velasco, che ha coinvolto tanti critici sottili a scrivere entusiasti di lui e ad interrogarsi incessantemente sul suo mistero .
Velasco non è un pittore reali-stico-celebrativo, e nemmeno un cronista dei colori: dunque bisogna ben intendere questo suo «omaggio alla catastrofe».
La sua pittura, la forza del suo dipingere, va immediatamente e potentemente al di là dei dati di cronaca: è canto e d'or-rore, certo, ma senza limitarsi ad essere commento e reportage.
Uno psicanalista quale Winnicot ha spiegato che spesso le nevrosi sono come ascolti, premonizioni, annunzi di una grande catastro-fe, che poi spesso finisce per esplodere. Così, per certi ver-si, tutta la pittura «naturale» di Velasco, si dispone come l'attesa, la premessa, la preparazione a questo grande evento catastrofico, a questosconvolgimento tellurico.
Come se le sue antiche montagne, le sue catturate, sanguinanti onde giovanili, non fossero altro che il timido preludio, la mistica cerimonia preparatoria per questo grande poema della rovina, che deflagra e si esalta nel formidabile, impressionante,
gigantesco telero del 28 luglio, due metri per quattro metri e venti, che domina la settecentesca sala affrescata di Palazzo Sertoli. Un quadro a suo modo storico, memorabile che rimarrà nella cultura lombarda.
28 luglio: partiamo infatti dai titoli delle singole opere:
questa volta Velasco si sottrae al facile giochino, fascinoso e giornalistico, dei titoli suggestivi, lirici, che hanno un'aura, un riverbero di tipo letterario. Forse il dolore stesso dell'immagine di questa valle squartata come un bue, gli impedisce quel lusso d'artista che è sempre un poco evocazione ruffiana e complice. La verità tragica dell'impatto con quanto è costretto a vedere, non gli concede che la fredda, refertoriale oggettività del dato concreto: nient'altro che la data della visione, la traccia di un appunto telegrafico che si fa quadro, ripensamento estetico ebollizione anche morale.
Questa è del resto una mostra non solo di tele grandiose ma anche di minimi disegni folgoranti, di appunti-ferita. Diario della sofferenza, fermato sulla carta. Però, non che Velasco sia un pittore realistico, referenziale (questa stessa asfittica categoria viene come travolta dalla piena della sua matericità di colore, che forza i contorni, ma che non violenta i dettagli).
Velasco è pittore vero, perché fa della materia pittorica la ragione del proprio dipingere: anche se è il vedere, lo sguardo sul reale a dettare per lui il titolo, a condizionare il quadro. Così è ridicolo, con lui, domandarsi se sia ancora un pittore figurativo oppure un artista astratto, patetiche distinzioni da critica anni Cinquanta (basterebbe lo splendido 20 luglio a dimostrare l'inanità di questa dicotomia). Semmai Velasco è un artista alchemico, che provoca la memoria, che chiede il coinvolgimento della stessa natura, nel tentativo di riprodurre su tela il miracolo irripetibile del paesaggio cosmico (ecco la devozione al dettaglio che Pascal suggeriva essere la vera divinità). E sta a rivelarlo quell'enorme bolla alchemica che in 18 luglio si solleva pneumatica sopra le macerie di vita, planando sul fuoco di fango, che ha travolto i contorni del reale. Alla base della tela, Velasco, per la prima volta - come sconvolto dalla sprecata, selvaggia massa di rifiuti - chiama a collaborare la vera realtà, cocci, lische, brandelli di stoffa, sovrapposti a collage, come in un ready made;ma tutto questo come per purificare la terra, come per guadagnarsi il diritto alla trasparenza dei cieli, alla lieve matericità dei suoi travagliati, miracolosi sfondi.
L'arte come macchina per ricreare il portento della natura. E allora, forse, si spiega meglio anche il bellissimo titolo complessivo della mostra, cioè «Paesaggio cancellato». Attenzione, «Paesaggio cancellato» senza articolo, non «Il paesaggio cancellato», che avrebbe qualcosa di troppo superbo, suonerebbe troppo programmatico, metafisico. Invece, «Paesaggio cancellato» come evento che coinvolge l'artista, che scuote il visitatore, che chiama a raccolta come le vecchie campane di paese. Un accadimento vissuto con sentimento. Non nel senso che la natura sia scomparsa, obliata, anzi. No. «Paesaggio cancellato» perché la natura scatenata rompe gli argini, scompagina la visione, scardina ogni prospettiva educata. In questo senso c'è un quadro emblematico, non si dice il più bello, ma certo il più rivelatore della mostra, 26 luglio: è come una ormai informale fine.
stra, travolta dalla piena, invasa dal lercio lenzuolo di melma, fango, catrame. Per un attimo ancora, eroico, squilla il vinto color legno dell'intelaiatura assediata. Ma potrebbe benissimo essere anche un meta-quadro, un quadro-manifesto, massimamente rivelatore della poetica di Velasco. Potrebbe anche essere il retro di una tela, nello studio, travolta, violentata da questa piena di colori e sentimenti e rancori. La natura che irrompe senza mediazioni sulla tela, direttamente dal tubetto del reale. E non stupisce, del resto, che nel suo bellissimo testo introduttivo, Roberto Tassi, come tutti gli esegeti di Velasco, del resto, torni a parlare di Romanticismo. Perché, sia pure romanticismo modernissimo, post-informale, iper-novecentesco, la matrice è pur sempre la stessa: il kantiano stupore di fronte all'irrompere fragoroso del sublime naturale. E forse proprio in questo incantesimo dell'accadere immobile, appunto del bloccato sopraggiungere della catastrofe immane, che travolge l'opera dell’uomo ma che telluricamente ritrova forza e nutrimento proprio dentro la propria stessa ciclica distruzione, consiste forse la grandezza segreta della pittura di Velasco, che ha coinvolto tanti critici sottili a scrivere entusiasti di lui e ad interrogarsi incessantemente sul suo mistero .