L’Unità

2004

Il Sud visto come mai prima

Marco Di Capua

Facendo zapping tra le mostre estive in Italia, saltano agli occhi, detto alla lettera, quelle dedicate a due pittori che più grandiosi e spettacolosi proprio non si può. Ci inviano potentissimi segnali di lusso, catastrofe e redenzione dal Regno delle Due Sicilie, nonché sentite dichiarazioni d'amore per le sue città: sono il tedesco Anselm Kiefer, a Napoli, e l'italiano Velasco, a Palermo fino a ieri (e questo mese e il prossimo a Venezia ai Magazzini del Sale, in concomitanza con la Biennale Architettura). E mentre c'è chi cincischia con giochetti e bambolotti e foto ricordo, questi sanno come tirare su metri e metri quadri di tela e visioni, e dipingere un mondo. Quindi un consiglio: vanno visti. Il primo è famosissimo, una star dell'arte contemporanea internazionale. Il secondo, magari, chissà. Però messi insieme, in sequenza, stanno benissimo.
 [..] Per uno spettatore italiano vedere Kiefer che rimastica e palleggia i miti teutonici è come rivedere Bruno Ganz che si butta e volteggia nel Cielo sopra Berlino, o von Karajan che dirige Beethoven ad occhi chiusi: bellissimi, però anche un po' fatti loro. Da questo punto di vista Velasco ti appare connaturato. Passare dalla mostra di Napoli a quella di Palazzo Belmonte Riso a Palermo è come essere catapultati da un duro seminario di filosofia tenuto in uno scuro «passage» berlinese a una spensierata passeggiata sulla spiaggia. Fa effetto. Con Velasco il mondo riacquista la sua innocenza. Una ventina di quadri di grandi dimensioni dedicati da questo giovane artista (del '59? giovane) lombardo alle città e ai paesaggi siciliani da cui è rimasto folgorato: Palermo, Catania, Trapani, Comiso, Ragusa, Modica, le saline (più una muta di venti cani in cemento e ferro!). Comunque: città! Viste da sotto, dall'alto, mentre si fanno e si disfano, si accendono e crollano e se tutto è perduto chi se ne frega perché tanto è bellissimo così...
Avete presente un telone di proiezione al cinema? Beh, se stai alle dimensioni, è quello lì. Solo che le immagini non si muovono, non slittano, non svaniscono, non fanno chiasso, ma è come se si dilatassero, chiedendo silenziosamente campo, come se si sporgessero verso di te proprio nell'attimo, questa la sensazione, in cui sembrano sprofondare. C'è qualcosa di eroico nel dipingere in questo modo, con questo coraggio, oggi. E di essenziale. Voglio dire che le immagini oggi si riversano, si imbellettano, si patinano, si truccano, si internano in Internet, ti arrivano addosso da tutte le parti, ma solenni e maestose così, quasi siano fenomeni della natura, chi te le mostra più? Qualche pittore. Dipingere, in fondo, è proprio questo: un modo speciale di vedere gli esseri, le cose. Per Velasco è anche un modo speciale di intensificarli, di dar loro energia, una scossa: funziona davvero solo ciò che sopravvive a questo esaltante e devastante terremoto visivo.
 In occasione della mostra è stato pubblicato un gran catalogo antologico ( Electa, a cura di Alessandro Riva e introdotto da un intelligente pezzo di Giulio Giorello) che ripercorre tutta l'attività di Velasco. È la storia di un pittore che ha chiamato dalla sua parte critici e scrittori, perché lui è un artista «suggestivo» direbbe Baudelaire. Giovanni Testori, il grandissimo Roberto Tassi, Enzo Siciliano, Vittorio Sgarbi, Marco Goldin, Marco Vallora.
Ma anche un fotografo come Ferdinando Scianna o un musicista come Franco Battiato, colpiti entrambi dal modo intenso con cui Velasco ha beccato la «sicilitudine». Ecco allora, se sfogli il catalogo non te le dimentichi più, le città nere in un tripudio di ceneri, calcine e scirocchi, facce, corpi, gesti, un ritratto di Oliviero che sembra un angelo caduto. E c'è un pezzo di spiaggia, quattro metri quadrati per l'esattezza, con le orme di chi è passato e già non c'è più.