Sette
2013
L'esodo dalle città in trenta dipinti
Francesca Pini
Velasco Vitali alla Triennale di Milano ritrae luoghi abbandonati. E ripopola l'Isola Madre con le sue sculture
Signori, il catalogo delle città fantasma italiane è questo: Africo e Casalnuovo, Buonanotte vecchia, Camere nuove, Connio vecchio, Maratea vecchia, Onunchio, Pentedattilo, valle Piola e ancora una cinquantina che a sommarsi alle altre 357 sparse per il mondo, censite in rete da Velasco Vitali, alla ricerca di quei centri abitati che esistono solo come “nomi pro-memoria”. Lo spunto è stato certo la sua vicinanza al borgo di Consonno (in Brianza, non lontano dal luogo dove vive l'artista), con edifici ancora in piedi e altri sbocconcellati, luogo di esercitazione di street-artists e di rave party. Antica è al riflessione sulla città ideale, sull'urbe come agglomerato urbano e umano. La storia, poi, è una concatenazione di città abbandonate, o ricostruite o fondate ex novo. Il ciclo che Velasco Vitali presenta alla Triennale di Milano (dal 17/o7 all'1/9) dipana in trenta dipinti di grande dimensione il suo rapporto con l’architettura e con li sogno. «Le mie città abbandonate, al limite della metropoli o formate da un insieme di poche case, sono assimilabili, per certi versi, a quelle città invisibili descritte da Italo Calvino», dice l'artista. «Nela realtà sono ricche di storie fantastiche e visionarie, testimonianza di una memoria progettuale e utopistica. L'analogia migliore è quella con Pompei, che ha avuto uno sviluppo straordinario e che poi, per un improvviso dramma naturale, è stata cancellata dall'eruzione. Ma ci sono altri luoghi che sono "scomparsi" perché le rotte commerciali sono cambiate e quindi i paesi ci sono spopolati; oppure quei centri minerari con annesso villaggio, dove hanno chiuso l’attività di estrazione e si sono svuotati. Ho preso la mappa del mondo e le ho trovate surfando la rete, aiutato da Francesco Clerici che è anche autore delle storie romanzate di queste cittadine».
Signori, il catalogo delle città fantasma italiane è questo: Africo e Casalnuovo, Buonanotte vecchia, Camere nuove, Connio vecchio, Maratea vecchia, Onunchio, Pentedattilo, valle Piola e ancora una cinquantina che a sommarsi alle altre 357 sparse per il mondo, censite in rete da Velasco Vitali, alla ricerca di quei centri abitati che esistono solo come “nomi pro-memoria”. Lo spunto è stato certo la sua vicinanza al borgo di Consonno (in Brianza, non lontano dal luogo dove vive l'artista), con edifici ancora in piedi e altri sbocconcellati, luogo di esercitazione di street-artists e di rave party. Antica è al riflessione sulla città ideale, sull'urbe come agglomerato urbano e umano. La storia, poi, è una concatenazione di città abbandonate, o ricostruite o fondate ex novo. Il ciclo che Velasco Vitali presenta alla Triennale di Milano (dal 17/o7 all'1/9) dipana in trenta dipinti di grande dimensione il suo rapporto con l’architettura e con li sogno. «Le mie città abbandonate, al limite della metropoli o formate da un insieme di poche case, sono assimilabili, per certi versi, a quelle città invisibili descritte da Italo Calvino», dice l'artista. «Nela realtà sono ricche di storie fantastiche e visionarie, testimonianza di una memoria progettuale e utopistica. L'analogia migliore è quella con Pompei, che ha avuto uno sviluppo straordinario e che poi, per un improvviso dramma naturale, è stata cancellata dall'eruzione. Ma ci sono altri luoghi che sono "scomparsi" perché le rotte commerciali sono cambiate e quindi i paesi ci sono spopolati; oppure quei centri minerari con annesso villaggio, dove hanno chiuso l’attività di estrazione e si sono svuotati. Ho preso la mappa del mondo e le ho trovate surfando la rete, aiutato da Francesco Clerici che è anche autore delle storie romanzate di queste cittadine».
Spesso i reportage fotografici ne descrivono la bellezza paesaggistica.
Citazione di Pompei a parte, Velasco ha escluso dal suo progetto i siti archeologici, concentrandosi sugli ultimi due/trecento anno di storia, che per una città sono davvero poco.
«L'anno scorso, alla Biennale di architettura di Venezia il progetto del padiglione russo era incentrato sulle città fantasma dell’Unione Sovietica, portate alla luce dopo la fine della guerra fredda. Questa mia ricerca è iniziata nel 2008, dal mio branco di cani, simbolicamente metafora di un intreccio di storie di vita di uomini "nomadi" che si adattano a luoghi. Leggendo le storie di queste citta abbandonate, davvero sembrano tutte dei plot di romanzi o dei canovacci cinematografici. Racchiudono vere e proprie suggestioni visionarie, e si riesce molto bene a immaginare la vita che vi si svolgeva. Poi ci sono dei casi limite, per esempio in Mongolia, dove sorge Kangbashi, appena costruita e che non riescono a popolare. Una sorta di grande plastico, che ha questo aspetto di vuoto contemporaneo». Luogo metafisico, sospeso. «Altrettanto inquietante è Kilamba, ni Angola, costruita dai cinesi in cambio del permesso di scavare pozzi petroliferi. Sembra una città fatta con li Lego, ma per gli africani viverci è troppo costoso». Uno spreco di spazio, di progettualità, di lavoro. «Poi ci sono anche epicentri del dramma, come Pripyat, vicina a Chernobyl. Ora gli americani hanno trasformato un posto del deserto del Nevada, dove hanno fatto esperimenti nucleari fino al 1962, i n centro d'attrazione» Diversamente silente è invece l'Isola Madre (sul Lago Maggiore), bellissima, fiorita, e ideale da abitare, ma di fatto museo, luogo astratto. E che Velasco ha vivificato con le sue installazioni, tra gli alberi.