Corriere della sera

1986

Velasco, le visioni di ghiaccio

Giovanni Testori

Non è facile leggere una prefazione che, come quella ventosa e bellissima scritta da Vittorio Sgarbi per la prima personale di Velasco, riesca a far sunto della storia d'una regione, d'un lago, quello di Como, d'una famiglia e, soprattutto, del rapporto di continuazione e d'incontro-scontro tra il padre, Giancarlo Vitali, che fu una delle più alte rivelazioni della scorsa stagione, e il figlio; che è per l'appunto, lui, Velasco; nome che, come se il resto non bastasse rima con Bellanasco; quanto dire col vento che, ogni sera, soffia su Bellano, ne rinfresca anche le più torride estati, manda all'aria ogni quiete e ingolfa di memorie di bagliori e di spettri la testa dei viventi di quell'indimenticabile borgo.
Il primo gesto da compiere nei confronti di Velasco è strozzare sul nascere ogni rapporto che chissà quanti critici son tentati di stabilire fra la sua opera e quella degli infiniti «iperrealisti-ritoccatori di fotografie», moltiplicatisi nel nostro Paese, come formiche, sulla mostra con cui chi scrive, nel lontano 1968, ebbe a presentare per la prima volta in Italia, anzi, in Europa, quel genio unico, ossessivo e irripetibile che risponde al nome di Lopez Garcia.
In effetti, per Velasco, in principio non ci fu, non c'era e non c'è obbiettivo fotografico alcuno; né ci fu, c'era e c'è lei, la parola; bensì, il ghiaccio. Parafrasando il titolo d'una grande, ciclica tragedia di O'Neill, potremmo dire che, con Velasco, nella pittura «arriva l'uomo di ghiaccio». O l'uomo d'un quarzo così raffreddato, da parer estratto dal «free-zer» dell'eterno. Perfetta, come li per li sembra, la pittura di Velasco, coi suoi infernali paesaggi lacustri, le inagibili catene dei suoi monti, le sue forre, i suoi «orridi», le sue onde arrossate dal tramonto come da qualche oscena emorragia, in realtà, appena la si voglia guardare con cura, rivela d'essere «ab initio», assolutamente trasgressiva.
Come ognuno sa, per guardare una pittura occorre toccarne, palparne ed esaminarne la materia; occorre, insomma, metterla alla prova d'innumerevoli vetrini. Qui, si tratterebbe di vetro con vetro; di vetro dentro vetro. Ma dir questo, sarebbe pur sempre fermarsi all'apparenza. Nel suo primigenio esistere e consistere, la materia di Velasco rivela, infatti, d'essere una sorta d'orribile, sconcio e innominabile spurgo.
Una bava, per dir così, paleontologica, lasciata da animali di cui abbiamo perso memoria; ma di cui, forse, possiamo ravvisare qualcosa, tanto nello strisciare delle lumache, e dei vermi, quanto nel volo, viscido e ambiguo, dei pipistrelli.
Sono ben felice che pubblico e collezionisti abbiano talmente amato le opere di questo giovane artista; né mi sento di dire che sian stati vittime d'un equivoco.
Ma, mi par certo, che, nel gelo irreprensibile, quasi cemeteriale, di queste vedute-visioni già pronte per l'aldilà, corre un veleno che le rende inquiete, mordaci, rabbiose; corre, anzi una sorta di liquido repulsivo; tanto più repulsivo, quanto più, per farsi forma, si blocca lì, nella fermezza di ciò che è glaciale.
Il meccanismo poetico e psicologico su cui si muovono i quadri di Velasco è formato da una sorta di simultaneità irrisolubile che accumula un enorme potere di fascinazione a un altrettanto enorme potere di repulsione. La tenaglia che tiene stretti i due opposti è una perentorietà di stile che strozza e distrugge in sé ogni temporalità. Così le tele di Velasco ci si presentano d'oggi, perché solo a un uomo d'oggi è dato imbalsamare in tal modo quanto ama, ma, nello stesso tempo, ci si presentano come atti compiuti fuori da ogni cronologia; e fuori da ogni geografia. Forse Velasco dipinge come se non avesse intorno a sé che il silenzio
d'uno sterminato ghiaccio da cui, a poco a poco, si sta facendo vincere, ingoiare e sopprimere. Il rischio, qui, è a portata di mano