Una via di fuga tra pittura e scultura
“non della realtà abbiamo bisogno ma di una via di fuga.”
Velasco Vitali, 2007
Nel varcare la soglia dei suoi cinquant’anni con rinnovata e contagiosa vitalità, Velasco Vitali ha trovato una nuova, esaltante “via di fuga” qui a Pietrasanta, in una straordinaria dimensione urbana, tra le sequenze aeree della piazza inclinata e gli oscuri spazi ritualidella chiesa. Questi spazi gli hanno fornito una dimensione espositiva ideale dove continuare il confronto, divenuto sempre più serrato negli ultimi anni, tra scultura e pittura, intersecando percorsi già sperimentati, come il tema dei cani e del branco, con invenzioni inedite di solenne e drammatico impatto visivo. Tali appaiono il misterioso scafo metallico, trasportato dai due uomini, di cui non si intravede il volto, lungo il perimetro della piazza, e i due monumentali teleri che occupano con la loro invadente forza decorativa, dedicata al motivo della folla – nuovo ma in certo senso ricollegabile all’universo a lui tanto congeniale delle città –, il perimetro regolare della Sala del Capitolo. A conclusione del percorso espositivo, nella Sala dei Putti, le matrici impastate e modellate in catrame dei due telamoni bronzei, collocate su un lungo corridoio di lamiera e due coppie di acquerelli raffiguranti ognuno una coppia di cani ci riconducono, in un emozionante à rebours, alle origini di questo singolare percorso creativo. A questo punto viene naturale ripensare a tutto quanto si è visto prima e immaginare, in quest’ultimo spazio allusivo all’officina, l’artista impegnato nella sua lotta continua con i materiali e le tecniche. Il grande metafisico è diventato un misterioso meccanico che nel suo studio garage milanese lascia riposare le tele, l’amata tavolozza con i colori a olio sapientemente accostati, le carte e i prediletti acquerelli decantati in una gamma sorprendente di effetti, per piegare lamine di ferro, modellare bronzo, alluminio, impastare cemento, catrame, far colare la pece, ma anche stendere lentamente come in un rito i fogli d’oro. Le suggestioni personali della tecnica si traducono negli azzardi di una tecnologia spavalda e corale dove Velasco Vitali e i suoi collaboratori ricercano accanitamente una serie di effetti, sperimentando dolorose scalfitture, violente suture tra i metalli, patinature incantate e gli strabilianti riflessi di superfici ridotte a specchio. In questa sempre sorprendente capacità di confrontarsi lungo le tracce di una sperimentazione determinata dalla continua metamorfosi della materia, resa ogni volta diversa dall’irripetibilità del procedimento creativo, riemerge la forza di una naturale versatilità rivelatasi sin dal precocissimo esordio, quando a otto anni lo scalpitante figlio d’arte (“Fin da piccolo” – ricorderà –, “e intendo dire a cinque anni, alla domanda su cosa farai da grande io secco: ‘pittore’. Mai, neppure per sbaglio, poliziotto, pompiere, aviatore, no: pittore, come mio papà!”) presentava come una sfida il suo primo quadro. Ma la facilità del pittore nato verrà sempre garantita da una tenace e dura disciplina.
Il disegno
Rivelatosi a Giovanni Testori, cui si deve il primo riconoscimento del suo talento, come “massimamente disegnatore”, quella per il disegno è stata in Velasco Vitali una predisposizione fatale, una “grande passione” – come ha scritto Alessandro Riva – “consumata, ferita, vissuta fino alle estreme conseguenze, fino alla distruzione e al sovraccarico, mai lasciata morire di noia e di nulla”. Per riuscire a capire meglio cosa ha significato e continui a significare per lui disegnare, può servirci rileggere un passo delle pagine che nella sua recensione all’Esposizione Universale di Parigi del 1855 Baudelaire dedicava a Delacroix,cercando proprio di segnalare a una critica fatua e cieca nella sua incomprensione per quel genio, la specificità di quel disegno che non è la “linea dura, crudele, dispotica, immobile, che imbriglia la figura come una camicia di forza”, ma che diviene, “come la natura, vivente e agitata”, perché “la semplificazione nel disegno è una mostruosità al pari della tragedia nel mondo drammatico”. Infatti la “natura ci presenta una serie infinita di linee curve, fuggenti, spezzate, secondo una legge di generazione impeccabile, dove le rientranze e le sporgenze si rincorrono e si susseguono”. Proprio Delacroix “soddisfa al meglio a tutte queste condizioni” e il “suo disegno, anche quando presenta manchevolezze o eccessi, ha comunque il grande merito di opporsi in modo strenuo ed efficace alla barbara invasione della linea retta, questa linea tragica e sistematica che ha già recato danni enormi alla pittura ealla scultura”. Sarei abbastanza sicuro che Velasco Vitali, fan dichiarato di Delacroix e del suo grande esegeta, abbia sempre condiviso questa vitale poetica dell’eccesso sin da quando, nel 1982, aveva cominciato a cacciarsi “ogni giorno a capofitto nel bosco”, “disegnando per cento volte” – ricorderà –, “per un esercizio che mi ero autoimposto, foglie, tronchi alberi”. Così nel 1993 potrà ancora esporre alla Compagnia del Disegno di Milano grandi teli dove aveva riprodotto in una solitudine monumentale alcuni elementi vegetali, come una radice, una foglia, il segmento di un tronco. Vi si confermava accanito botanico, con un segno la cui allucinata forza analitica rimandava alla grafica feroce di Dürer o di Holbein, mentre l’immersione panica nella natura conservava un’inquietudine che ricorda i brividi gotici che facevano trasalire il Renzo manzoniano, sempre un ragazzo del lago di Como, quando si smarriva, prima di ritrovare la sua “via di fuga” verso Bergamo, che rappresentava perlui la salvezza, nella paurosa boscaglia addensata lungo le rive dell’Adda: “A poco a poco, si trovò tra macchie più alte, di pruni, di quercioli, di marruche. Seguitando a andare avanti, e allungando il passo, con più impazienza che voglia, cominciò a veder tra le macchie qualche albero sparso; e andando ancora, sempre per lo stesso sentiero, s’accorse d’entrare in un bosco. Provava un certo ribrezzo a inoltrarvisi; ma lo vinse, e contro ogni voglia andò avanti; ma più che s’inoltrava il ribrezzo cresceva, più ogni cosa gli dava fastidio. Gli alberi che vedeva in lontanza, gli rappresentavano figure strane, deformi, mostruose, l’annoiava l’ombra delle cime leggermente agitate, che tremolava sul sentiero illuminato qua e là dalla luna: lo stesso scrosciar delle foglie secche che calpestava o moveva camminando,aveva per il suo orecchio un non so che d’odioso”. Ma lo scenario delle avventure grafiche di Vitali poteva anche radicalmente cambiare, quando al confronto diretto con la natura, magari mediata da suggestioni letterarie, subentrava quello con la dimensione immanente e ipnotica dello schermo televisivo. “Diversi anni fa” – ricordava nel 2003 l’artista – “avevo disegnato un intero ciclo di disegni prendendoli direttamente dalle immagini della tivù, mentre guardavo il Giro d’Italia: disegnavo così, di getto, senza mai fermarmi a pensare o a riguardare le cose già fatte, come se stessi vedendo il Giro dal vero”. Quest’esperienza rimanda a una delle sue imprese più belle, quando nel 1993 si cimentava con un capolavoro di Testori Il Dio di Roserio, un romanz odel 1951 su un giovane meccanico del popolare quartiere milanese diventato una leggenda per il suo talento di ciclista. In una prova, che è qualcosa di più e di molto diverso dalla semplice illustrazione di un testo letterario, appare straordinaria la capacità di tradurre visivamente la forza espressiva e dinamica della parola, dello stesso ritmo eroico e spavaldo di quel libro. Non poteva darsi un omaggio più riuscito e sentito a colui che aveva saputo comprenderlo così bene, se pure agli esordi. Quando dopo averlo invitato a partecipare a una mostra, allestita nel 1984 alla Rotonda della Besana di Milano su “Artisti e scrittori”, Testori scriveva: “Non v’è nulla, in lui d’estetico, nella scelta di cartoni, legni e fogli vecchi usati, macchiati, smangiati, spesso disegnati da chissà quale mai altra e antica mano: anche se, con la stessa chiarezza, va detto che v’è in lui, nel far questo, una grande, esasperata tensione verso ciò che i francesi, intraducibilmente, chiamano “morbide”; e che forse poi potremo tentare di riferire [sic] stato permanente di patologia psicologica. Insomma, affinché i reliquiati diventino reliquie, a Vitali è necessario che tra le sue matite, i suoi acquarelli, le sue tempere, i suoi inchiostri, le sue gomme, i suoi polpastrelli e i suoi bulini, insomma fra tutto il suo armamentario di mezzi e di supporti, non si stabilisca nessuna conflittualità; ha anzi bisogno che tra essi si stabilisca un’assoluta complicità”. Questa felice diagnosi delle risorse di un mestiere sempre più sicuro nel prevedere,come in una sorta di rapimento magico, tutte le reazioni possibili sollecitate dall’uso di materiali e procedimenti tecnici diversi, ci rimanda a quella originale ed esclusiva ossessione del disegno e della carta, quale ce la riferisce lo stesso Vitali, confessando: “Io comincio il mio lavoro d’artista unicamente disegnando, con il pensiero sotterraneo che mai avrei dipinto una tela. La carta fa parte della mia formazione, del mio stare al mondo. La carta per me è sempre stata il supporto ideale: perché mi ha sempre dato l’idea che si può stracciare più facilmente rispetto alla tela. È un supporto talmente povero che non mi pone nessun problema di rispetto, mentre sulla tela ho sempre la sensazione di dover fare qualcosa di compiuto. Con la carta ho un rapporto più agile, più diretto, al punto che spero sempre di poter dipingere come disegno. E devo dire che ho sempre disegnato come un pazzo”. Ancora “con la carta” – ribadiva – “ho fatto di tutto, l’ho presa, l’ho maltrattata, ci ho disegnato a carbone, l’ho fatta a pezzi, ho cercato carte di tutti i tipi, dalle carte vecchie aifondali delle cornici”.
La pittura
Il passaggio dalla grafica alla pittura, dal disegno al colore, nasceva in Velasco Vitali da un procedimento sperimentale personalissimo dove la casualità del vissuto finiva con l’assumere un ruolo sostanziale. Ricordava, infatti, come i primi quadri fossero “nati su carta daun tentativo di distruzione del quadro” stesso. “Prendevo il disegno” ci spiega “ e cominciavoa colorarlo: il risultato era sempre un fallimento. Di fronte a questo fallimento allora prendevola carta, la buttavo nella vasca da bagno e quando cominciava a macerarsi vedevo che saltava fuori qualcosa, un’immagine, una sinopia, una radiografia di quello che avevo fatto fino a qual momento; allora recuperavo tutto e ricomponevo il quadro. Anche le parti distrutte le conservavo: ancora oggi” – ammetteva – “ho cassetti interi di carte cancellate, semidistrutte, pezzi e brandelli di disegni, perché penso sempre che una volta o l’altra mi possano servire; e di tanto in tanto in maniera miracolosa trovo un pezzo che va bene e lo applico su un altro disegno”. Trovare infine la “via di fuga” della pittura è stata per Vitali una sorta di rivelazione romantica, determinata dalla convinzione che “razionalmente” – ha dichiarato – “il linguaggio pittorico è indecifrabile perché si genera in una zona buia che sta tra l’idea che precede l’immagine e la stesura del colore, fra il pensiero, l’immaginazione e il segno lasciato sulla tela”. Questa ammissione ci ricorda molto quello che verso il 1830 aveva sostenuto l’amatissimo Friedrich, in quel suo allora impressionante invito: “Chiudi il tuo occhio fisico così da vedere l’immagine principalmente con l’occhio dello spirito. Poi porta alla luce quanto hai visto nell’oscurità, affinché si rifletta sugli altri, dall’esterno verso l’interno. […]Il pittore non deve dipingere solo quello che vede dinanzi a sé, ma quello che vede dentro di sé. E se in se stesso non vede nulla, smetta di dipingere anche quello che vede dinanzia sé. Altrimenti i suoi quadri somiglieranno a quei paraventi dietro cui ci si aspetta di vedere il malato o il morto”. Pittura dunque che è prima di tutto “atteggiamento mentale”, declinata da Vitali come “una tecnica fragile”, secondo le sue parole “destinata a scomparire fra le mani del suo artefice, ancora prima di prendere forma”, che “rinuncia al suggerimento mimetico per coglierne il sussuro intimo, per individuare l’anima dell’immagine”. Estrarre l’immagine dal buio diventa, come per tutti i romantici, una lotta e quella di Velasco Vitali ha saputo renderla benissimo, osservandolo lavorare, Pino Corrias che, nel suo testo per il catalogo della fondamentale mostra del 2005 “Extramoenia”, inseriva questo passaggio indimenticabile: “Quando è in studio Velasco dipinge con muscoli e vene tirate. Dipinge circondato da pennelli, legni, colori, barattoli di trementina, stracci, fogli,carboncini, schizzi arrotolati, tele accatastate. Il disordine completo lo isola e lo rassicura. Dipingere per lui è una specie di combattimento. Si avvicina e si allontana dalla tela. La appende, la capovolge, la distende per terra. Ha una straordinaria velocità di esecuzione, anche se il suo dipingere è virtualmente infinito. Dice: ‘Un quadro posso ritoccarlo per giorni. Sino a che mi sta davanti non è mai finito. È lui a chiedermelo… Sono io che un giorno dico basta e lo lascio asciugare’”. Tanta foga, questa rapidità di esecuzione sembrano appartenere a un selvaggio, a un abelva che, come Delacroix o Pollock, aggredisce e riesce a domare il demone della pittura, senza timore di confrontarsi con i grandi maestri del passato, sopra di tutti Caravaggio, Velázquez, Manet, per ritrovare infine nello “spazio frugato della memoria” nuovi, ma maidefinitivi segnali narrativi. La dimensione onirica, visionaria, e la naturale propensione realistica gli sono servitiper misurarsi con l’atroce catastrofe naturale dell’ alluvione in Valtellina che nel 1987 aveva lacerato e umiliato il paesaggio lombardo. Come i suoi eroi romantici, lo stesso Delacroix, Géricault, Friedrich, anche Vitali è diventato uno spietato pittore reporter che ha saputo confrontarsi con la crudeltà incomprensibile della cronaca e in tanto strazio esaltare sentimenti universali. Questo non gli ha impedito di ritirarsi in montagna e dedicarsi, per un’intera stagione, a disegnare solo fiori, come avevano fatto Courbet, Manet, van Gogh. Ossessionato dal colore e concentrato a lungo nella preparazione della tavolozza, è stato sempre convinto che “dal pigmento dovesse nascere l’idea, e come se la pittura si generasse”– ha dichiarato – “dalla stessa sostanza di cui è composta”. Pensando proprio alla potenza della materia pittorica collegata a un intenso percorso emotivo Stanza 4049, proposta nel 2007 alla mostra di Sondrio su “Immagini, Forme enatura delle Alpi”, rimane un vero capolavoro dove, in uno spazio condiviso tra pittura e scultura, ventidue blocchi di lamiera di ferro lucidata a smeriglio giacciono a terra impegnati in un eroico dialogo con i quadri alle pareti dominati dalla solitudine assoluta e dalla“bellezza panica” dei ghiacciai eterni tra il Pizzo Bernina e il Roseg. Vi domina la stessa ansia dell’ignoto e del divino che ci trasmette la grandiosa inquietudine del Mare di ghiaccio di Friedrich, con i suoi lastroni gelati che ostruiscono il campo visivo, invadendo la nostra anima. L’immaginario di Velasco Vitali, in realtà occupato già negli anni delle sue prime esperienze dalle Alpi percorse sin da bambino e mai dimenticate, andrà alimentandosi nel tempo dall’immersione in un altro paesaggio non più rappresentato dalle vertiginose ma anche rassicuranti prospettive naturali, ma dai desolati quanto esaltanti labirinti delle nostre degradate città tra Milano e Ragusa, in quella prediletta Sicilia identificata, attraverso una coinvolgente esperienza diretta come dalla mediazione delle pagine di Gesualdo Bufalino, senza alcun cedimento al pittoresco. I suoi quadri ce la restituiscono, per incandescenti frammenti di materia colorata e di luce, in una sua grandezza crudele, mortificata e disperata.
Scultura
Nelle pagine del Gran teatro montano (i memorabili Saggi su Gaudenzio Ferrari del 1965) di Giovanni Testori, dove la storia dell’arte assumeva la cadenza coinvolgente della critica militante, tra gli infiniti dettagli individuati nella grande scena pittorico plastica della Crocefissione,la cappella XXXVIII del Sacro Monte di Varallo, ci imbattiamo nella “meravigliante apparizione del cagnolino; il cagnolino, mi credo, di lui, Gaudenzio, se tanto torna e ritorna nelle sue opere; il cagnolino che dové seguirlo ovunque; e muoversi qui, mentre il Maestro lavorava […]”. Sicuramente anche Velasco Vitali, come tutti noi guidati da quelle pagine indimenticabili e magari nel suo caso dall’amico Testori in persona, è rimasto colpito da quel sorprendente animale impastato in terracotta e poi dipinto, che, come una delle poche notegaie in quella folla feroce e straziante attorno alla Croce, sembra venirci incontro. Anche i suoi cani sono un esempio di scultura che nasce dalla pittura e viene la tentazione, dopo questo primo confronto con Gaudenzio, di individuare altri possibili ascendenti, dai veltri aristoratici ed elegantissimi che chiudono come idoli muti e impenetrabili il primo piano nell’affresco con San Sigismondo e Sigismondo Pandolfo Malatesta nel Tempio Malatestianodi Rimini, ai polemici bastardini modellati in terracotta da Cecioni – in particolare quello che defeca, inarcandosi e con la coda dritta dritta, della collezione Gonelli di Firenze –, al raro Cinerco dell’Etna che se ne sta accucciato ai piedi delle due divinità nel gruppo marmoreo di Venere e Adone di Canova, allo strano esemplare, simile all’egiziano dio Anubi dalla testacanina, che domina al centro del dipinto Le figlie di Loth di Carlo Carrà. Si potrebbero fare altri esempi, ma sarebbe un’inutile e forse pretestuosa scorribanda iconografica. Potrebbe magari servire a capire meglio l’unicità dei cani di Vitali, direttamente ispirati ai randagi che l’artista ha incontrato nelle sue città e soprattutto in Sicilia, “edificati”– ha scritto benissimo Luca Doninelli quando sono stati presentati alla mostra “Extramoenia”allestita nel 2004 in Palazzo Belmonte Riso a Palermo e subito dopo nel Palazzo della Ragione a Milano – “come case abusive, con rete metallica, o tondino, e cemento schiaffato a cazzuolate, essi non soltanto incarnano un paesaggio tipicamente italico – lavia assolata, il cancello aperto, il fossato secco, e il cane randagio che cammina di traverso, e non sai se ti sarà amico oppure no. Nella loro origine precaria e illegale, nel loro non avere casa, nel loro vagabondare perenne, essi sono al tempo stesso i veri custodi della terra, i figli di un paesaggio irripetibile e, al tempo stesso, di qualche divinità pagana, magari eredi dei cani che, obbedienti a ordine non revocabile, fecero a pezzi il loro sempre amatissimo Atteone”. Possibili autoritratti di Vitali, in questi animali non può che riflettersi il destino degli umani. Il commovente cane appollaiato su uno sgabello impagliato, esposto nel 2006 alla rassegna “Tana” allestita nel sottopalco del CRT, Teatro dell’Arte di Milano, non appartiene forse, nella sua attitudine e nella sua diperata solitudine, allo stesso branco di naufraghi aggrappati alla Zattera della Medusa di Géricault? Ma è meglio, arrivati a questo punto, concludere con la nota di speranza che affiora da uno degli Appunti di Sandro Penna:
“Oh nella notte il cane
che abbaia di lontano.
Di giorno è solo il cane
che ti lecca la mano.”
in Sbarco, Skira 2010, Milano, Palazzo Reale e Piazza Duca D'Aosta, catalogo della mostra