Il colore e la parola
Armando Torno
A volte nella Bibbia le immagini sfuggono. In Qohelet, per esempio, il saggio che scrive e parla come un filosofo giunto da Atene per ascoltare un rabbi di Gerusalemme: egli si finge Salomone ma è senza volto, la sua vita conosce e irride il tempo, rifiuta forma e forme come primo araldo del nulla. Sussurra alcune verità e si dilegua, tra una contraddizione e l’altra, dopo aver conosciuto come pochi i piaceri, forse a Babilonia. Non mostra se stesso nemmeno quando urla, tra sentenze acuminate, che Dio c’è. E anche il suo nome si fa misterioso nel divenire anziché svelarsi. I dotti, ad Alessandria d’Egitto, nel tradurre in greco la rivelazione lo chiamarono Ecclesiaste, colui che si rivolge a un’assemblea. Ma fu un accordo, una convenzione, quasi sicuramente un compromesso: Qohelet non ama i raduni, è un cane randagio, un solitario. Chissà perché ha scritto. Chissà chi era.
Di lui ci restano più i colori che le immagini, più i colpi vibrati dalle sue frasi che una dottrina. A volte si direbbe, quando è intento a evocare la vanità, che necessiti dei vapori, del bianco che occulta ogni cosa. In altre parti, ricordando l’amarezza che lasciano in noi i sensi, spinge i suoni delle parole verso il blu intenso che si distende nei cieli delle notti d’Oriente. Un blu indescrivibile, che in Qohelet nasconde anche le stelle. E che dire della donna del Cantico? Perché anch’essa non ha un volto? Confessa soltanto un colore, il nero; ha con sé, come viatico per correre tra le pagine bibliche, unicamente un’infinita passione. E poi è una sola o sono forse tre, intente a inseguire un uomo che non si mostra e risponde esclusivamente ai richiami d’amore? Il Cantico dei Cantici è azzurro, tutto, indistintamente, lo è più del cielo; è l’amplesso degli amplessi che si cromatizza e cancella le linee catturate dagli occhi.
Susanna invece no, è diversa, lei ha un volto; è bellissima. E con la sua avvenenza dona un’identità anche ai vecchioni che la bramano. Sopporta le tinte forti, ma è meglio rispettarla con quelle dell’acqua innocente che scivola sul suo corpo. Sansone, di contro, mostra i muscoli, i capelli, esce dalla storia biblica con forza: ha bisogno di tonalità pastello per rivivere, quasi come la mela di Eva o Mosé che tiene strette le tavole della legge. E Gesù? Quali furono i suoi colori? A Cana decise di sconvolgerli e dalla trasparenza passò al rosso intenso dei vini, il medesimo che nell’Ultima Cena diventò miracolosamente il suo sangue. Gesù ogni volta che compie un prodigio sovverte i colori, le norme, le forme. Alla Samaritana chiese dell’acqua per restituirle la vita e con l’adultera narrata da Giovanni violò le leggi della meccanica costringendo i sassi, che stavano raggiungendo il corpo della peccatrice, a ritornare a terra. E quando risorge? Ha ancora bisogno del rosso che lo accompagna nel suo peregrinare terreno e sul Golgota?
Queste e altre domande sono nate in diversi colloqui con Velasco Vitali, quando insieme — oltre cinque anni fa — cercammo di riprendere momenti e figure della Bibbia. I colori da lui scelti e i tratti essenziali delle sue figure mi parvero già allora più adatti delle mie parole per salutare il nuovo arrivo della Regina di Saba o per cogliere nella sua insipienza il ricco dei vangeli. Mi accorgo ora, vedendole insieme, che le sue opere sono nate da un’esegesi più profonda e vera che non quella della semplice prosa. Un pittore è in grado, se lo desidera, di evocare i suoni, gli odori, oltre ai tormenti e alle scene in cui l’umano incontra il divino; invece, chi vive di prosa, può soltanto accapigliarsi con i termini, cercando di scegliere aggettivi non inflazionati o sostantivi lontani dalle sentine in cui li ha spinti la pubblicità. Vitali — ed è questo il suo merito — abbraccia direttamente la scena biblica, facendola rivivere, immaginare, forse sognare. A volte gli basta un colore (come con Susanna); altre volte rende essenziale un tratto — guardate le sue mani — per indicare il tocco di Dio o la sua presenza, che sovente è ombra . Certo, sa anche giocare con le macchie. Ma, in fondo, che cos’è l’uomo se non una ben riuscita macchia della creazione?