Luca Molinari

2013

In search of a lost Utopia. Le città fantasma di Velasco Vitali

Kalyazin, Plymouth, San Zhi, Sewell, Maunsell Sea Forts, Suakin, Skrunda-1, Nikolaevka, Crotty, Balaklava, Calbi, Bezonvaux, Jonestown, Animas Forks, Boone, Ophit, Kiandra, Scurati, Rhyolite, Shaniko, Vìkar, Toiano, Strond, Stazzano Vecchia, Gwalia, Grafton, Cunard, Old Goa, Pentedattilo, Salecchio, Doel, Belchite, Silverdale, Tifata, Goroumo, Betoota… A scorrere il lungo elenco di città costruite e abbandonate dall’uomo, e da noi conosciute solo in queste ultime centinaia d’anni, si rimane impressionati dalla quantità sterminata di sforzi, desideri e visioni, anche involontari, che hanno governato la nostra Storia portando l’uomo a dare forma, ogni volta, a opere che superavano la sua misura e portata. Il mito e la maledizione di Babele ci perseguitano dall’alba dei tempi, non solo come monito all’uomo nella sua volontà folle di assomigliare a Dio, ma anche per l’idea stessa di freno allo sviluppo e sfruttamento delle nostre capacità e potenzialità, al fatto che, raramente, sappiamo quando il limite è stato raggiunto e inesorabilmente superato verso una discesa che è già rovina e dissoluzione.
In quel desiderio originale (delle origini) che è il costruire città, lo stare insieme, il condividere regole, risorse e protezione, esiste anche la ricerca costante di una relazione con la tecnica e le scienze che hanno consentito all’essere umano di dominare la Natura e le sue forze. Ed è nel sogno di una tecnica che non conosce limiti che ritroviamo la storia dell’uomo dai primi villaggi passando per le metropoli dell’antichità fino a un mondo interamente urbanizzato dove più di una persona su due vive ormai stabilmente in una città.
Scorrere con lo sguardo e tutti i sensi i disegni e le tele che Velasco Vitali sta dedicando da alcuni anni al tema delle città fantasma porta innanzitutto alla mente queste considerazioni e a chiederti perché questo autore, dopo un lungo percorso di viste urbane reali cercate con ostinazione lungo la nostra penisola, sia approdato a questa esperienza.
Non c’è alcun moralismo nei suoi ritratti di città; non percepisci la condanna della miopia umana e del suo orgoglio feroce, e neanche l’infamia di un genere (quello umano) che ancora non ha capito nulla del monito di Babele.
Piuttosto sembra trasparire un interrogarsi stupito sulla bellezza struggente di questi monumenti involontari all’ambizione dell’uomo che stanno lentamente tornando a diventare frammenti di nuova Natura, o semplicemente rovine di alcuni dei tanti mondi di vite e civiltà che abbiamo consumato nella nostra Storia.
L’uomo è scomparso da tempo, e l’unico presente è l’autore che osserva e rappresenta; mentre le case, i fortilizi, le strutture d’ingegneria, i grandi monumenti pubblici che un tempo accoglievano la vita di migliaia di persone sono fissati in una dimensione materica e coloristica sospesa in una lenta metamorfosi, lenta ma inesorabile nel suo diventare nuova Natura, frammento di un processo in profonda e instabile trasformazione che la porterà a essere altro da sé.
Le prime volte che ho visto queste tele mi era venuto quasi naturale accostarle allo stupore muto delle opere di Caspar Friedrich, a quella dimensione del Sublime romantico che rende ogni frammento umano come un dettaglio pronto a tornare parte della Natura e della sua religiosa immensità. Ma a questa sensazione, a quella dimensione del Sublime involontario a cui la nostra civiltà sta inesorabilmente tornando, si assomma una componente materica, fisica e sensoriale che non può essere rintracciata nelle tele del grande tedesco. Si tratta di un altro filone, più corrotto e sensuale, segnato da una pennellata densa e carica di materia e pasta, che ritroviamo nei dettagli “minori” di Goya, Daumier e Turner, e che si è caricata progressivamente in van Gogh e Monet, per diventare radice espressiva in Dubuffet, Morlotti, Burri e Vedova, a cercare di descrivere quella dimensione primordiale e originale di una materia squassata dal mondo che inesorabilmente stava cambiando.
Il realismo virtuoso di Vitali viene volontariamente messo alla prova, stressato con violenza nel ritratto urbano perché oggi non è più tempo per i paesaggi rassicuranti e veristi del nostro tardo Ottocento. La metropoli o i suoi sottoprodotti devono essere raccontati con uno sguardo diverso, consapevole di quello che rappresentano, cosciente della postmodernità in cui siamo immersi, e capace di produrre nuovi simboli che rappresentino il tempo instabile e drammatico che abitiamo.
Non è un caso che uno dei fenomeni culturali più interessanti degli ultimi anni sia lo studio e l’analisi delle rovine contemporanee. Si è cominciato con le ricerche urbanistiche e architettoniche che denunciavano gli sprechi, le violenze e i guasti che un approccio incestuoso verso la Natura e il paesaggio stava producendo, per poi muovere lentamente verso una zona grigia molto più sottile e meno moralista in cui lo stupore per quello che s’incontrava nelle lande più disperse del mondo provocava nei nuovi viaggiatori contemporanei.
Il punto è che noi sappiamo pochissimo di un mondo cresciuto troppo in fretta e in maniera eccessivamente frantumata per essere conosciuto. In una dimensione in cui sembra che con la Rete abbiamo il controllo di ogni elemento, ci ritroviamo a essere, invece, come quei viaggiatori che tra il XVI e XIX secolo andarono alla scoperta di mondi ignoti e riportarono nella vecchia Europa immagini e storie impensabili. Il Sublime nasce anche da questa dimensione e dalla sensazione che il mondo conosciuto stesse diventando troppo grande per noi. Oggi ci ritroviamo a vivere esperienze simili nel riscoprire tutti quei manufatti e quelle trasformazioni che ci riempiono di stupore e di paura, e cerchiamo insieme strumenti per registrare quanto scopriamo perché torni nella nostra vita e diventi conoscenza condivisa.
Il lavoro di Velasco Vitali, che sarebbe molto piaciuto a Borges e Calvino, entra a pieno titolo in questa disperata opera di catalogazione del mondo nuovo e dei guasti che ci portiamo dietro dal secolo passato. C’è amore e rassegnazione in queste opere, stupore e disperazione che si accompagnano alla voglia di fissare sulla carta e sulla tela le memorie di un mondo che sta cambiando troppo rapidamente sotto i nostri occhi e che ci potrebbe fornire non poche soluzioni su come affrontare il prossimo futuro.