Danilo Eccher

2019

Conversazione con Velasco Vitali

D.E. Già nella prima mostra che abbiamo fatto assieme, tu hai realizzato una serie di paesaggi alpini rinchiusi in uno spazio totalmente occupato da sculture di acciaio, come le lingue di un gigantesco ghiacciaio, che impedivano l’accesso a chiunque. Ora, presenti un’opera di oltre 10 metri che risulta inaccessibile per la presenza di un lago artificiale che ne rispecchia l’immagine ma ne impedisce la vicinanza. Sembra che tu voglia in ogni modo preservare, proteggere, nascondere i segreti della pittura, non solo la tua ma la complessa grammatica di questo linguaggio. Sembra che tu voglia allontanare il colore da uno sguardo troppo aggressivo, troppo acido e corrosivo, così il racconto si fa inafferrabile, indicibile, eppure, in questo caso, stiamo parlando di un quadro di oltre 10 metri alto quasi 2, un’opera imponente, dai colori violenti e materici in contrasto con l’immagine naturalistica del paesaggio montano. E poi il lago artificiale, una barriera d’acqua che allontana ancor più l’orizzonte, non tanto fisicamente quanto concettualmente, trasferendo la ‘Veduta’ dalla realtà del quadro al riflesso delle superficie d’acqua. È come un continuo rimando di immagini che si confondono, si mescolano, si abbracciano e si riflettono l’una nell’altra. Insomma, pare che tu voglia impedire allo sguardo di risolvere ogni enigma, pare che la visione non sia più sufficiente, chiedi di entrare nel paesaggio, sentirlo addosso, sentirne i profumi, sporcarsi con i suoi colori ma non possederlo.

V.V. – Tenere le distanze dalla pittura?! Interessante. Potrebbe essere un avvertimento . Se la pittura è di per se una pratica semplice da  eseguire è infatti molto più complesso cercare di avvicinarne i significati e provare ad interpretarla . In questa mostra la Pittura e il paesaggio costituiscono due “visioni” e il mio compito potrebbe essere quello di raccontarli in modo univoco. Anche se lo scopo vero è lasciare che il paesaggio appaia soltanto come pretesto . Ma la pittura nasce sempre da uno stimolo visivo, quindi anche il paesaggio per banale o complesso che sia è già uno spunto di riflessione profondo . Da questo dualismo, come fosse una gara ad inseguimento tra i significati nascono gli inganni. Sono i tranelli della visione. Sono porte che si schiudono verso nuovi punti di vista sulle cose: spostiamo il quadro dalle pareti dello studio per esempio e appendiamolo in casa oppure fuori, in giardino, o alle pareti di un muro cittadino o dentro una chiesa e così via, saremo sorpresi nel vedere come ogni volta il quadro cambia, con colori e luci diverse, quindi con significati diversi. Lontano anche dalle intenzioni dell’artista che l’ha eseguito e all’opposto dalla interpretazione che ne abbiamo dato la prima volta. Potremmo affermare che il dipinto si arricchisce della nostra visione, siamo noi che modelliamo ciò che vediamo, allontanandoci e avvicinandoci al dipinto, modificando l’illuminazione e spostandolo sotto nuove luci con infinite varianti. A tutte queste possibilità s’aggiunge poi quella della forma, della stesura e della natura stessa del dipinto, che va dal tipo di supporto usato alla complessità materica del colore . La forza del pigmento che sbava sotto l’impulso di una pennellata o la lisciatura che una lama di spatola imprime al colore sono spesso motivi sufficientemente intriganti per perdersi nelle maglie dei significati d’un quadro. In sintesi l’analisi dei mille particolari di un dipinto rappresenta anche la mappa labirintica nella quale è facile perdersi e uscircene è un patto enigmistico che spinge ad un’infinità di domande. Secondo questa logica la pittura sembrerebbe valere di per se, senza che sia necessario un elemento figurativo che la inchiodi ad un’inutile narrazione . Ma forse non è così.

 

D.E.  È sorprendente come nella tua pittura siano spesso i dettagli a dettare il ritmo del racconto, lo sguardo insegue inutilmente le grandi campiture di colore, le masse di luci e ombre per poi, esausto, accorgersi che tutto lo spartito si racchiude in una tenue e frammentata linea rossa che appare in alto nell’opera e che recita il profilo del paesaggio. Affiora così alla memoria un altro piccolo tratto a sanguigna che racconta delle stesse montagne, uno schizzo di pochi centimetri con il quale Leonardo da Vinci ha fermato il tempo della natura alpina, si coglie allora anche quel senso di rispetto che tu esprimi nell’ingigantire all’inverosimile quel tratto. Quel distillato di pittura che Leonardo ha racchiuso in pochi centimetri tu lo dilati, lo espandi, lo vesti di colore, lo accompagni lungo il disegno delle cime che separa il cielo dalla terra. Penso che sia il tuo modo di pittore per rendere omaggio a Leonardo, penso che sia anche il tuo amore per un paesaggio che senti tuo, penso che sia l’anima più intima che ti lega alla pittura, alla sua grammatica, alla sua poesia.

V.V. Questo grande quadro rappresenta per me il mio modo di essere pittore e il modo di “essere nel tempo”. Ho aspettato cinque mesi per salire all’ultimo piano di  Palazzo Lombardia in un giorno in cui le condizioni di luce erano perfette e mi consentivano di vedere ciò che aveva visto Leonardo dal tetto del Duomo cinquecento anni prima. Quel giorno, tra Milano e le Prealpi disegnate da Leonardo sembrava non ci fosse più distanza , anche se di fatto le cime più alte erano lontane qualche centinaia di chilometri. Ho fatto anche il contrario, ovvero ho guardato Milano salendo sull’ultima montagna a sud di Lecco, il Monte Barro che consente una vista a 360 gradi su tutta la catena prealpina e contemporaneamente sulla pianura e su Milano. Poi sono salito sulle Grigne e sul Resegone, con lo stesso intento. E’ stato il mio modo di appropriarmi di Leonardo e contemporaneamente delle mie radici e della mia storia. Tutti i giorni da trent’anni percorro la strada che dal mio studio milanese porta verso il Lago di Como dove abito e tutti i giorni in condizioni di luce diversa rivedo che lo skyline leonardesco mi si presenta davanti come uno scenario mozzafiato. Allo stesso modo in futuro altri artisti osserveranno questo panorama con l’intensità di Leonardo, il quale ha più volte replicato quello schizzo arricchendolo di osservazioni e annotazioni naturalistiche. Ecco, io mi ritrovo, codice Atlantico alla mano, involontariamente, sui passi di Leonardo; cammino in questi/quei luoghi perché ci sono nato e i miei pensieri, tutti i giorni, sono rivolti alla pittura, come disgiungere allora le cose? Impossibile, meglio viverle. Dilatare il piccolo disegno di Leonardo equivale per me a dilatare il tempo, a renderlo percorribile e vivibile, a esserne parte e sentirlo come un presente inequivocabile. Leonardo osserva i particolari di un paesaggio di cui ne traccia il profilo con cura maniacale , la sua esecuzione sembra comprendere invenzione artistica e precisione naturalistica fino al punto che i due piani si confondono. Oggi percepiamo la totalità della sua opera come una summa di punti che nell’insieme rappresentano un grande quadro. E’ per  questo motivo, e l’ho sempre pensato, che anche la pittura più in generale necessità di una sostanziale narrazione, come di una pluralità di particolari che ne giustifica il concetto di base . 

 

D.E. In questo grande quadro vi è un punto di distrazione, un luogo nel quale l’occhio si abbandona con piacere, un posto sicuro e familiare dove lo sguardo si acquieta. Non è solo il giallo aurorale che penetra nel paesaggio dall’alto a destra, ma è, anche in questo caso, il suo riflesso nel cuore delle valli, è lo squarcio di luce nei blu notturni che si attardano a lasciare la natura, È una macchia gialla, un lampo acceso nel cuore della tela, un grumo di colore che lacera i verdi ancora sonnolenti e i blu ormai cupi, è in quel punto che il paesaggio si risveglia al nuovo giorno, è da lì che la luce si espande nel quadro, che scavalca le rocce, accarezza i boschi, sfiora le cime ancora avvolte dalle nebbie. Una semplice macchia gialla, un soffio di pigmento e l’equilibrio è infranto; verdi, blu, grigi, ocra, si rincorrono con nuova energia, l’emozione del chiaro e scuro ha un nuovo incanto, si accende il vortice di un racconto che scorre senza freno sulla tela.

V.V. Quel giallo sono io. E’ il mio modo di dialogare col quadro e col mondo. E’ la mia necessità di rompere uno schema e contemporaneamente appropriarmi di un linguaggio che è mio. La mia ossessione non è Leonardo, ma interpretare me stesso al meglio per farmi conoscere e dialogare con gli altri. La pittura è un linguaggio segnico, pieno di possibilità interpretative e più si è schietti su questo punto più la comunicazione con il resto del mondo sarà chiara e netta, diretta e comprensibile. Una macchia gialla è un segno inequivocabile che annulla altri possibili fatti descrittivi, già troppo e fin troppo conosciuti come un andamento prospettico di crinali montuosi, strade, case, vegetazione e altre valli, è una luce diversa che illumina un pensiero piuttosto che un fatto visivo. E’ un momento di sospensione, un’autoesclusione dal tutto. 

 

D.E. E quei grigi sulla sinistra? Che peso hanno quelle rocce fredde e incolore relegate al lato del paesaggio? Eppure, mostrano spigoli muscolosi, operano tagli e incisioni ma rimangono però muti, sembrano giganti testimoni di una recita che si compie altrove, osservano, nella loro nuda maestosità, il susseguirsi di luci e colori, su, fino alle trasparenze delle nebbie che avvolgono e suggeriscono il profilo delle cime. È la parte pittoricamente più verista di tutto il quadro, un richiamo alla terra, un robusto ancoraggio alla realtà, il controcanto di una poesia cromatica che rischia altrimenti di restare sospesa, eterea, superficialmente impalpabile. In quella parte del quadro il colore sembra raschiato via, la natura è più rude, severa, le rocce indossano un grigio inospitale, quasi trasparente nella loro ieratica presenza. Il profumo romantico che si poteva respirare nella luce aurorale del giallo sul lato opposto, nei verdi vibranti delle vallate, nei blu intensi delle ombre, qui si dissolve per lasciare affiorare un’inquietante geometria di piani naturali.

V.V. Eppure è la parte più materica del dipinto. L’effetto di raschiamento tecnicamente è ottenuto mettendo uno strato di colore bianco su tonalità di terre prima che il colore sottostante asciughi del tutto. Sono strati aggiunti di volta in volta, a più riprese, per ottenere una compattezza solida e ruvida come la roccia. La totalità compositiva di questa prima parte di quadro rappresenta un’architettura materica, un omaggio al disegno leonardesco, ma è anche un introduzione al tema. E’ la suggestione della montagna, è un carattere deciso che non ha esitazioni, è quello che si vede, nient’altro. Anzi, l’esecuzione del dipinto cronologicamente inizia proprio da li, dal punto in cui volevo sentire e vedere il corpo del paesaggio. Posso anche dire che ogni sezione di questo dipinto è una sintesi di come vedo la pittura, un luogo dove tutte le intenzioni si radunano per mettere in atto un'unica opera. Come nella lirica. La nota identitaria dell’intero dipinto è data dalla lunga striscia di cielo che lo attraversa, è la linea di confine in cui i caratteri descrittivi si perdono e le cime delle montagne non rappresentano più una solidità costruttiva, ma sfuocano nel colore lattiginoso del tramonto contaminato dall’inquinamento della stratosfera. Il dipinto si snoda secondo una lunga linea orizzontale. Un asse visivo che ne rimarca la visione panoramica e il paesaggio è racchiuso in una specie di schiacciamento ottico rettangolare. Anche in questo caso il dualismo cromatico è una sottolineatura voluta per favorire i doppisensi: descrivere e negare il paesaggio, citare Leonardo riparandosi alla sua ombra e poi uscire allo scoperto a affrontare l’incerto far west della contemporaneità . Sul lato opposto di queste rocce per me c’è la giungla, la foresta amazzonica, l’incompiutezza, i mille richiami coloristici , il nonsense e l’inaspettato. La precarietà anche della pittura. 

 

D.E. Nella seconda parte della mostra ti concentri su un’altra Milano, non più quella degli orizzonti prealpini bensì quella più simbolica, storica, identitaria dell’architettura gotica del Duomo. Un tema, va detto subito, estremamente pericoloso, non solo molto usato ma troppo spesso abusato, si potrebbe dire banale, un’immagine che ha spesso scordato il suo valore spirituale e culturale per assumere quello più turistico e commerciale. Insomma, un grande rischio, un soggetto pittoricamente infido, scivoloso, ma tu, invece che limitare e aggirare tale pericolo hai addirittura alzato la posta, hai rilanciato il rischio, hai giocato il ‘tutto per tutto’. Non solo hai confermato il volto del Duomo ma lo hai declinato con un sottile e garbato omaggio a Claude Monet: i colori cangianti delle sue cattedrali di Rouen sono diventati il tuo bianco e nero di Milano. Anche qui lo scorrere della giornata, dalla nebbia impastata del mattino al chiarore accecante del mezzogiorno riflesso nel biancore del marno, fino allo sprofondare nella notte dei neri fantasmi aggrappati alle gargolle.

V.V. Si può affermare che nel momento in cui Monet dipinge la cattedrale di Rouen il corso della pittura moderna cambia . Da quella svolta decisiva non si è più tornati indietro. Da allora la pittura è stata un'altra cosa. Quindi se “fare i conti” significa riflettere, allora quel momento della storia m’interessa eccome. E da quel punto a oggi quanto ci siamo evoluti? Mah! solo la presunzione della nostra contemporaneità ci spinge a dire che quella è una storia già vista e superata. La luce e il buio non sono soltanto due grandi metafore della nostra esistenza, ma riguardano la sostanza della pittura. Così scegliere il puro bianco e nero a scapito del colore mi ha aiutato a ripercorrere gli ultimi cent’anni di lavoro sulla luce. Costi quel che costi. Da quando Monet dipinge il primo quadro sulla cattedrale non sono passati nemmeno centotrent’anni, un tempo brevissimo . A me, questo stop, serve per fermarmi a guardare in quella direzione con più attenzione, imponendomi severità, scegliendo un punto di vista da cui si possa osservare la pittura da dentro, cominciando proprio dalla luce. Questo in fondo è il principio originale, il fatto sostanziale che giustifica tutte le pratiche visive. Mi sono domandato perché non ricominciare da zero, con due soli elementi, per provare a riscrivere quella pratica con il minimo dei mezzi che abbiamo a disposizione. A queste condizioni non conta davvero più l’immagine, anzi, serve piuttosto un immagine che per mito, storia, eredità, conoscenza, immaginario abbia attraversato tutti i clichè e sia essa stessa un clichè o un simbolo della memoria. Al punto che infine nessuno dica che ho dipinto il Duomo! anche se di fatto ho passato l’estate ad osservarlo. 

 

D.E. in questa serie composta di opere si cammina in bilico fra figurazione e astrazione, è quella ‘terra di nessuno’ nella quale il racconto si fa diafano, il corpo dell’immagine si sfalda, la figura sbiadisce in un ectoplasma. L’intera architettura narrativa si piega sulle fondamenta, lo sguardo si annebbia mentre affiora una nuova visione poetica, emozionale, sempre più distante dai fenomeni sensoriali, immersa nel sogno di un’immagine possibile. Come gli alberi di Mondrian anticipano le geometrie successive, così, queste architetture si scompongono e spariscono nel bagliore della luce o nel buio della notte. Rimane il corpo vuoto della pittura, la pelle materica che increspa la superficie dell’opera, rimangono grumi densi che cercano il loro scopo narrativo. Queste opere segnano un limite, un al di qua e un al di là, anzi, testimoniano e raccontano questo passaggio, tracciano una figura e il suo ricordo, un oggetto riconoscibile e una segreta emozione. Dove sta la tua pittura? Nell’inseguire lo sguardo o nell’abbandonarsi all’anima? Forse in entrambe le parti, forse altrove, ma con queste opere hai camminato nel territorio sospeso dei due mondi, hai visto il confine, hai sollevato il sipario.

V.V…sto sulle scalinate del museo del Novecento e vedo, osservando il Duomo  che ad ogni attimo l’architettura si modifica . Vedo che non puoi dipingere se non vedi. Vedo che alcuni frammenti della montagna dipinti nel quadro grande non sono altro che i costoloni della Cattedrale tradotti in bianco e nero. Vedo che il Duomo è una montagna e una città allo stesso tempo. Questi due soggetti potrebbero accompagnare tutta la mia pittura futura, per sempre e sono sicuro che non avrei bisogno di nient’altro per arricchire la mia ricerca, il mio sguardo e la mia voglia di dipingere. La “stanza” del Duomo l’ho immaginata come un fuga di Bach, massiva, un soggetto che si replica secondo un procedimento imitativo rispettando una progressione numerica . Poche varianti, ma sufficienti a stimolare una gamma infinita di possibilità rigeneratrici.  

 

D.E. In realtà, questa è una mostra di solo due opere: un paesaggio e un’architettura. Una narrazione naturale, accesa e vibrante nella ricchezza coloristica e un racconto umano, storico e culturale, avvolto dalla meditazione del bianco e nero. Due mostre più che due opere, due distinti percorsi che però hanno numerose intersecazioni, contatti, lunghi tratti paralleli. Entrambi i temi ruotano attorno al concetto di ‘Veduta’, nell’accezione classica, come esperienza oculare, come immagine narrativa di una figura riconoscibile, ma anche in un’interpretazione meno convenzionale, come visione poetica, apparenza, l’altro e l’altrove di ogni immagine. Due realtà simili che convivono nello stesso racconto, due racconti che si sdoppiano e si riflettono in nuove e molteplici verità. Nella tua pittura non c’è un’indicazione di scelta, c’è però il coraggio di toccare il limite, di sporgerti oltre il bordo, di scavare in una verità che solo la pittura può sfiorare. Una mostra coraggiosa, essenziale, essa segna l’attimo per scollinare l’orizzonte e ammirare i nuovi paesaggi.

V.V. hai concluso tu e ti ringrazio, non avrei veramente nulla da aggiungere. (Vorrei soltanto dire che la pittura ha un dna ricchissimo.  Non l’ho mai percepita come un campo minato disseminato di esplosivi o come più volte s’è tentato snobisticamente di affermare che è cosa morta. Mi sembra piuttosto una superficie mobile ricca di spunti, dove ognuno può anche raccontarla se vuole, ma soprattutto la deve fare. Una lingua mille volte riscrivibile senza esitazioni e senza rimpianti e dove le cancellature non devono somigliare ai pentimenti, ma piuttosto a svuotamenti della memoria e a pulizia dell’anima. Fondali dove tracciare segni netti come su una tela bianca e ogni tanto lasciare spazio ai cromatismi, perché no? è rigenerativo e necessario , come fare i traslochi ).