Vittorio Sgarbi

1986

Forza e solitudine in Velasco

Eccoli, allora i tipi umani di Bellano e i parenti, in enormi ritratti sui quali la pittura si pone come un velo, lasciando in evidenza il disegno, pittura data e poi cancellata, macchiata, sporcata. Le immagini ci ritornano fantasmi, larve che non celano la forza , l’energia, l’esistenziale imminenza dei corpi, con gli acciacchi, le fragilità, le malattie, ma, insieme, una loro monumentale potenza, come gli uomini e le donne che popolano il ricco bestiario di Holbein, improvvisamente schierati davanti a noi, senza i paludamenti delle loro dignità e delle loro cariche. Essi sono stati spogliati; i loro abiti, le loro acconciature sono dissolti, ed essi si mostrano in tutta l’umana miseria. Poi si dissolvono anche le carni, e davanti a Velasco resta la grande, l’immensa natura; non gli animali, le povere, umiliate, violentate bestie, ma le piante dalle foglie più taglienti che lame avvolte, intricate, aggrovigliate, in un nodo di gambi, petali, calici schiusi e corolle prominenti. Viste dall’alto, schiacciate su tavolacci in ambienti indefiniti, piante colpite, straziate, strappate alla natura. Velasco guarda ai grandi tedeschi, a Philip Otto Runge, attraverso la congelata rigidezza di Lucian Freud. Guarda e colpisce da una lontananza degli occhi che non attenua la violenza dei gesti. Qui l’uomo è convocato per absentia, come artefice del male della natura. L’uomo taglia la rosa, il carciofo, il tulipano, strappa la radice, deforma la natura, ma resta qualcosa di più grande, nella natura, che lo travolge. Ed ecco che l’occhio di Velasco si alza verso la chiostra dei monti, cattura il cielo minaccioso che sembra placarsi nell’acqua gelida e specchiante; ma la luce è sempre grigia, carica della imminente tenebra, in un’atmosfera di minaccia degli elementi: in questi grandi quadri Velasco riflette la sua alta solitudine di individuo, oltre i conforti e le certezze della famiglia e della bottega.
L’uomo alla fine è solo, è dentro i vortici d’acqua, nubi e montagne come al centro di un uragano che arriverà implacabile, lo stesso uragano che aveva sconvolto le tele di Turner e Friedrich. Ma in Velasco c’è un senso di immensità e di potenza, e di terribile divinità della natura, che troviamo soltanto nei grandi americani, in Church, e in Bierstadt, sciolti di ogni enfasi da un mondo nuovo, per assumere l’impronta dei luoghi abbandonati dopo l’annuncio. Qui la divinità è già passata, ed è rimasta la sua ombra, un’orma sulle cose che l’acqua morta invano tenta di riprodurre con la forza attenuata di un’eco. Velasco ha saputo cogliere l’energia dell’ombra, la luce negativa, riflessa, tagliente, il risucchio che viene dal fondo della terra e dagli abissi dell’acqua. Il suo lago, i suoi monti stanno al centro, attraggono tutta l’esistenza. Velasco viene così compiendo e perfezionando il cammino del padre; la sua visione si fa più scabra ed immobile, in una folgorante fissità. Dagli idilli, pur turbati, del padre, Velasco è arrivato alla sua “Ginestra”:, al suo “Tramonto della luna” su una terra ancora per poco illuminata da cupi bagliori. Noi saremo inghiottiti, ma la nostra coscienza sarà salva. Così come aveva visto il Leopardi: “giunta al confin del cielo, / dietro Appennino od Alpe o del Tirreno / nell’infinito seno / scende la luna; e si scolora il mondo; / spariscon l’ombre, ed una / oscurità la valle e il monte imbruna; orba la notte resta… “. A Velasco non resta che chiedersi cosa troverà oltre “l’estremo albor della fuggente luce”.

in Velasco – Opere 1985-1986, Galleria Altair Nuova, Lecco 1986