L'inumana condizione
Velasco Vitali è un artista umano, molto umano. Ecco perché preferisce rappresentare l’umanità sofferente ricorrendo a metafore canine. Non so se la sua compassione sia rivolta agli animali o agli uomini. In ogni caso i suoi cani, alcuni dei quali somigliano a quelli di Alberto Giacometti, sono umanizzati in modo tale che la loro disposizione nello spazio ci fa pensare a gruppi di persone intente a spo¯arsi da un punto a un altro o a collocarsi in un punto o in un altro. Sappiamo che il meglio di un uomo è il cane che sonnecchia dentro di lui. Non nel senso che l’uomo è un cane che non sa di esserlo; nel senso che l’uomo, quando coltiva la propria affettività, si comporta come il cane. Come diceva un umorsta, “il mio cane è l’unico essere che si mostra contento quando mi vede tornare a casa”, o, come dice Jules Roy, “è un essere che ci preferisce a tutti gli altri”. Con ciò, il modo in cui i cani di Vitali si dispongono nello spazio ci ricorda che l’uomo ha bisogno di sentirsi sicuro associandosi con i suoi simili, mettendo in comune il suo destino con quello del prossimo, sapendosi in compagnia di altri uomini sia per agire sia per difendersi. Solamente i cani non si fanno la guerra. Non studiano piani di battaglia. Possono sì difendersi se li si attacca o se hanno fame, ma non si riuniranno mai in un luogo per pianificare una strategia di attacco.
È in tal senso che Vitali inscrive la razza canina entro contesti che possono richiamare certe attitudini proprie dell’uomo. Fuor di metafora, proviamo a osservare questi cani scolpiti in metallo come oggetti d’arte. Al limite, come direbbe Braque, questo non è un cane. Ed è vero: è una figura scaturita dall’immaginario dell’artista che vorrebbe parlarci dell’uomo e della sua complessità. Di fatto, questi cani annaffiati dagli spruzzi di un’allegra fontana non sono altro che stelle cadute da un cielo sognato dall’artista. Polvere di stelle, forse, in ogni caso creazioni che ci guardano come testimoni di un’epoca tutt’altro che semplice e tranquilla. Se mai, di un’epoca segnata dalla violenza. Certo, oggi meno violenta di quella vissuta dai nostri genitori e dai nostri nonni, quando l’Europa fu deva¯ata e fatta a pezzi dal nazismo, ma comunque tale da indurci a parlare di violenza nella misura in cui percepiamo la nostalgia di certuni per quella brutale ferocia conosciuta dalla storia. Perché è la vita stessa a essere violenza, la vita e i suoi conflitti. O, quantomeno, è questo il messaggio, o il suggerimento, che io colgo nell’opera del nostro artista. Non si dipinge, o non si scolpisce, l’epoca riproducendola così com’è. È impossibile. Vitali evita l’attacco frontale, non aggredisce il reale in maniera diretta, faccia a faccia, lo aggira, riuscendo così a dirci un numero ben maggiore di cose. Sta a noi decifrarne le parole, i sogni, le ansie. Jean Genet scrisse, a proposito di Giacometti: “La bellezza non ha origine se non nella ferita, individuale, differente per ciascuno, nascosta oppure visibile, che ogni uomo reca in sé, che custodisce in sé, una ferita nella quale si rifugia quando intende lasciare il mondo, preferendogli una solitudine magari temporanea ma profonda”. Velasco Vitali sa di che cosa è fatta “l’inumana condizione”. Vitali è colmo di realtà. Ne sa molto. Non ha bisogno o di finzioni o di simboli leggibili. Cambia razza. La razza umana l’ha condotto a soffermarsi sulla razza animale, consapevole della bellezza che le sue creazioni possono comportare. I cani di Vitali ci sono familiari. Si spostano senza vederci, o si sdraiano incuranti di chi viene considerato il loro padrone. Non sono cani; sono statue che mettono paura ai cani, che risvegliano nell’uomo un timore antico, quello dell’immobilità del corpo, dell’immobilità della morte che raggela il corpo e annulla la mente. Queste opere d’arte non cessano di rinviarci alla sensibilità di colui che le ha create. Guardarle significa donare loro un po’ di vita. Guardarle significa donare a noi medesimi un supplemento di vita. In questo senso il magnifico lavoro di Vitali ci riguarda molto da vicino. Perché egli ha scelto di rivolgersi per mezzo dell’arte più esigente, più raffinata, più bella. Sono cani “borghesi” i suoi. Se li confrontiamo con i cani di Giacometti, dobbiamo riconoscere che i “cani” di Vitali sono stati ben nutriti, bene allevati; mentre quelli di Giacometti sono pelle e ossa, affamati, soli, in una parola umani. È quest’umanità che Vitali ha cercato di scolpire. E vi è riuscito in quanto il suo lavoro è una creazione che ci fa riflettere, e forse cambiare qualcosa nelle nostre vecchie abitudini, nelle nostre peggiori certezze.
È in tal senso che Vitali inscrive la razza canina entro contesti che possono richiamare certe attitudini proprie dell’uomo. Fuor di metafora, proviamo a osservare questi cani scolpiti in metallo come oggetti d’arte. Al limite, come direbbe Braque, questo non è un cane. Ed è vero: è una figura scaturita dall’immaginario dell’artista che vorrebbe parlarci dell’uomo e della sua complessità. Di fatto, questi cani annaffiati dagli spruzzi di un’allegra fontana non sono altro che stelle cadute da un cielo sognato dall’artista. Polvere di stelle, forse, in ogni caso creazioni che ci guardano come testimoni di un’epoca tutt’altro che semplice e tranquilla. Se mai, di un’epoca segnata dalla violenza. Certo, oggi meno violenta di quella vissuta dai nostri genitori e dai nostri nonni, quando l’Europa fu deva¯ata e fatta a pezzi dal nazismo, ma comunque tale da indurci a parlare di violenza nella misura in cui percepiamo la nostalgia di certuni per quella brutale ferocia conosciuta dalla storia. Perché è la vita stessa a essere violenza, la vita e i suoi conflitti. O, quantomeno, è questo il messaggio, o il suggerimento, che io colgo nell’opera del nostro artista. Non si dipinge, o non si scolpisce, l’epoca riproducendola così com’è. È impossibile. Vitali evita l’attacco frontale, non aggredisce il reale in maniera diretta, faccia a faccia, lo aggira, riuscendo così a dirci un numero ben maggiore di cose. Sta a noi decifrarne le parole, i sogni, le ansie. Jean Genet scrisse, a proposito di Giacometti: “La bellezza non ha origine se non nella ferita, individuale, differente per ciascuno, nascosta oppure visibile, che ogni uomo reca in sé, che custodisce in sé, una ferita nella quale si rifugia quando intende lasciare il mondo, preferendogli una solitudine magari temporanea ma profonda”. Velasco Vitali sa di che cosa è fatta “l’inumana condizione”. Vitali è colmo di realtà. Ne sa molto. Non ha bisogno o di finzioni o di simboli leggibili. Cambia razza. La razza umana l’ha condotto a soffermarsi sulla razza animale, consapevole della bellezza che le sue creazioni possono comportare. I cani di Vitali ci sono familiari. Si spostano senza vederci, o si sdraiano incuranti di chi viene considerato il loro padrone. Non sono cani; sono statue che mettono paura ai cani, che risvegliano nell’uomo un timore antico, quello dell’immobilità del corpo, dell’immobilità della morte che raggela il corpo e annulla la mente. Queste opere d’arte non cessano di rinviarci alla sensibilità di colui che le ha create. Guardarle significa donare loro un po’ di vita. Guardarle significa donare a noi medesimi un supplemento di vita. In questo senso il magnifico lavoro di Vitali ci riguarda molto da vicino. Perché egli ha scelto di rivolgersi per mezzo dell’arte più esigente, più raffinata, più bella. Sono cani “borghesi” i suoi. Se li confrontiamo con i cani di Giacometti, dobbiamo riconoscere che i “cani” di Vitali sono stati ben nutriti, bene allevati; mentre quelli di Giacometti sono pelle e ossa, affamati, soli, in una parola umani. È quest’umanità che Vitali ha cercato di scolpire. E vi è riuscito in quanto il suo lavoro è una creazione che ci fa riflettere, e forse cambiare qualcosa nelle nostre vecchie abitudini, nelle nostre peggiori certezze.