Le emozioni dell'Isolitudine
C’è coraggio in questa pittura di Velasco; in una certa misura, c’è l’arroganza positiva del giovane, consapevole dei suoi mezzi, che punta a soluzioni pittoriche anche difficili, a quelle scelta che la tradizione avrebbe sconsigliato, che spesso si trasformano in esiti felici per una pittura-pittura, materializzata nel trasporto emotivo e nel mestiere, nella fisicità del colore, nella pennellata densa depositata sulla carta. Cui si collegano, corollario stilistico-emotivo non indifferente, i ritagli, i frammenti ricostruiti , i bordi lasciati alle leggi del caso; per questa via, l’insieme, l’opera appare ad un tempo come immagine meditata e di getto, conserva la freschezza del bozzetto e si propone con la compiutezza dell’opera finita. […]
[…] il paesaggio è pretesto, spunto, ma anche emozione. Fuori dal naturalismo, perché troppo dentro la pittura, Velasco non si sofferma sulle strutture del paesaggio, o non vi si sofferma più di tanto; la sua Via Krupp guarda piuttosto a Gianquinto che alla via, da cui trae spunto e origine l’opera. Il debito, insomma, è con la pittura, non con la natura.
In questo Velasco appare davvero come un pittore del XXI secolo. Siamo ormai lontani – idealmente, moralmente anche – dalle ideologie e siamo immersi in una necessità che è quella di ritrovare il segno, il gesto, le procedure di una nuova vicenda artistica. Di certo, a monte, nonostante i mille (inevitabili) echi di tanto dopoguerra rimediato sulle mano e sul gesto, c’è la mano di Giancarlo Vitali, con la sua sapienza pittorica; forse non insegnata in forme dirette, ma assorbita, fatta propria in una relazione che è prima affetto che cultura. Ogni pennellata è pittura, come ogni gesto definisce un sentimento, un’emozione. […]
[…] Siamo in debito di ossigeno, in tempi come questi, nei confronti della pittura. Che non è pittura vecchia, ma che vuole definirsi senza il portato dei mezzi massmediali, significativi, ma non determinanti. La globalizzazione sta forse finendo, appena cominciata, nel fumo nero delle torri che crollano e nel sapore acre di un virus modificato da chissà quali isterie; forse anche le ventate linguistiche e tecnologiche stanno mostrando limiti pesanti; come se la storia volesse, nonostante tutto, riportarci ab ovo. Non al dialetto, ma ad una lingua ricca di radici, comprensibili proprio perché, anche quando lontane, attinge a forme archetipe, come le strutture di paesaggio che Velasco propone: si diceva per questo, più rimeditando la pittura che guardando la natura.
Ammoniva Picasso che difficoltà nella pittura non era nel cercare, ma nel trovare: «Secondo me il cercare, in pittura non significa nulla. Trovare: questo è il problema» e aggiunge «Quando io dipingo, il mio scopo è di mostrare quel che ho trovato, e non quel che sto cercando», a conferma di una via, troppo disattesa dalle molte recenti esperienze.
La cultura postmoderna, necessaria e probabile conseguenza della fine delle ideologie, non coincide con la fuga dal mezzo; ma con un diverso uso scanzonato e smaliziato a volte, come in questo ultimo Velasco. Magari anche con qualche limite, con qualche gioco d’equilibrio che rinvia a misure, spesso contraddette, spesso superate, ma sempre presenti. E soprattutto con quel sapore di immediatezza colta, con quell’ossimoro che è inevitabile in ogni creazione artistica a partire dall’assunto: il grande vecchio ci ammoniva, quasi un secolo fa, che l’arte non è la risposta ai problemi del mondo, ma ne è parte; con il suo portato di invenzione e di individuali fantasie. Perché l’arte continua ad essere, consapevolmente, «una bugia che ci fa realizzare la verità» e umanamente «almeno la verità che ci è dato capire».
Mauro Corradini, Le emozioni dell’Isolitudine, Bresciaoggi, 14 giugno 2003
[…] il paesaggio è pretesto, spunto, ma anche emozione. Fuori dal naturalismo, perché troppo dentro la pittura, Velasco non si sofferma sulle strutture del paesaggio, o non vi si sofferma più di tanto; la sua Via Krupp guarda piuttosto a Gianquinto che alla via, da cui trae spunto e origine l’opera. Il debito, insomma, è con la pittura, non con la natura.
In questo Velasco appare davvero come un pittore del XXI secolo. Siamo ormai lontani – idealmente, moralmente anche – dalle ideologie e siamo immersi in una necessità che è quella di ritrovare il segno, il gesto, le procedure di una nuova vicenda artistica. Di certo, a monte, nonostante i mille (inevitabili) echi di tanto dopoguerra rimediato sulle mano e sul gesto, c’è la mano di Giancarlo Vitali, con la sua sapienza pittorica; forse non insegnata in forme dirette, ma assorbita, fatta propria in una relazione che è prima affetto che cultura. Ogni pennellata è pittura, come ogni gesto definisce un sentimento, un’emozione. […]
[…] Siamo in debito di ossigeno, in tempi come questi, nei confronti della pittura. Che non è pittura vecchia, ma che vuole definirsi senza il portato dei mezzi massmediali, significativi, ma non determinanti. La globalizzazione sta forse finendo, appena cominciata, nel fumo nero delle torri che crollano e nel sapore acre di un virus modificato da chissà quali isterie; forse anche le ventate linguistiche e tecnologiche stanno mostrando limiti pesanti; come se la storia volesse, nonostante tutto, riportarci ab ovo. Non al dialetto, ma ad una lingua ricca di radici, comprensibili proprio perché, anche quando lontane, attinge a forme archetipe, come le strutture di paesaggio che Velasco propone: si diceva per questo, più rimeditando la pittura che guardando la natura.
Ammoniva Picasso che difficoltà nella pittura non era nel cercare, ma nel trovare: «Secondo me il cercare, in pittura non significa nulla. Trovare: questo è il problema» e aggiunge «Quando io dipingo, il mio scopo è di mostrare quel che ho trovato, e non quel che sto cercando», a conferma di una via, troppo disattesa dalle molte recenti esperienze.
La cultura postmoderna, necessaria e probabile conseguenza della fine delle ideologie, non coincide con la fuga dal mezzo; ma con un diverso uso scanzonato e smaliziato a volte, come in questo ultimo Velasco. Magari anche con qualche limite, con qualche gioco d’equilibrio che rinvia a misure, spesso contraddette, spesso superate, ma sempre presenti. E soprattutto con quel sapore di immediatezza colta, con quell’ossimoro che è inevitabile in ogni creazione artistica a partire dall’assunto: il grande vecchio ci ammoniva, quasi un secolo fa, che l’arte non è la risposta ai problemi del mondo, ma ne è parte; con il suo portato di invenzione e di individuali fantasie. Perché l’arte continua ad essere, consapevolmente, «una bugia che ci fa realizzare la verità» e umanamente «almeno la verità che ci è dato capire».
Mauro Corradini, Le emozioni dell’Isolitudine, Bresciaoggi, 14 giugno 2003