Velasco e le rovine
“Ruderi, mia famiglia […]!”. I versi de I fiori del male di Baudelaire risuonano mentre si attraversano i diversi capitoli di Listen Better, la mostra di Velasco Vitali allestita negli spazi di IULM, curata, con rigore e passione, dagli studenti del Corso di Laurea Magistrale in Arte, valorizzazione e mercato. Un’esposizione d’impronta quasi politica che, percorrendo le vie dell’analogia, non senza rinvii alle poetiche romantiche, si misura con le conseguenze della situazione climatica e ambientale mondiale.
Scandito in tre tempi – Un pugno di polvere, Percepii la scena, e predissi il resto, Terra desolata – e costellato di diverse visioni apocalittiche – catastrofi, alluvioni – il racconto di Vitali è introdotto da un video del 2011 intitolato Kolmanskop (con la regia di Francesco Clerici).
È in queste sequenze il senso della proposta di Velasco, il quale ha trasformato l’Exhibition Hall di IULM in un paesaggio terremotato, occupato da rovine. Si tratta di elementi che custodiscono una valenza quasi metafisica. Le rovine. “Sono una sorta di faro dell’esistenza umana che illumina l’incomprensione, la viltà e l’avidità della maggior parte delle società”, ha scritto Alain Schnapp, sulle orme di quel che aveva detto, “con la distanza del filosofo e la curiosità comparativa del grande viaggiatore”, Chateaubriand: “Tutti gli uomini hanno una segreta attrazione per le rovine”.
Siamo dinanzi ad autentici ossimori plastici, che tengono insieme antitesi. Identità e alterità. Continuità e distanza. Invisibile e visibile. Eternità e durata.
Figure ambigue. Sono rovine i monumenti destinati a decadere, ma anche tante lingue scomparse e tante ritualità dimenticate. E ancora, le rovine possono avere uno spessore materiale e uno immateriale: evocano i segni lasciati dalle azioni dell’uomo, ma sono pure esito delle aggressioni da parte della natura. Infine, possono essere opera di eventi diversi o degli uomini. Di volta in volta, sopravvivenze o devastazioni.
Al di là di queste differenze, i ruderi, ha sottolineato ancora Schnapp, incarnano “una delle caratteristiche universali della condizione umana”: hanno il valore di “dati immediati della coscienza”. Intrecciando potenza dell’oblio e forza della rimembranza, alludono alla fine di un mondo; e, in sé, rendono incombenti tracce di quello stesso mondo. Dotati di uno statuto simbolico, con la loro bruciante consistenza, segnalano l’assenza di chi li ha creati.
Potenti epitomi metaforiche, annunciano una grandezza mutila, in un perverso gioco tra morte e rinascita. Sono come architetture incerte e tarlate, che mimano l’irreversibilità del tempo, grande scultore. Parte rotta di ciò che era intero. Testimonianze di imperi crollati, rinviano a epoche tramontate, sempre pronte a ridestarsi. Restano in vita, ma la vita si è irrimediabilmente allontanata da loro. Capaci di cogliere i limiti della condizione umana metastorica, questi brandelli di una memoria precaria, pericolosa e preziosa parlano, con un eloquio elusivo, di chi non c’è più.
Pur se spesso violate dall’erudizione e dal sempre più diffuso desiderio di spettacolarizzazione, le rovine, ha rilevato Marc Augé, si riferiscono a “molteplici passati” in modo incompleto, amplificandone ed esasperandone l’enigma. Quando si emancipano dalla cornice in cui l’erudizione e la filologia tendono a inchiodarle, ci consentono di incontrare ciò che abbiamo perduto e di intravedere quel che saremo.
Come le rughe su un viso che, pur se dissimulate, pronunciano lo sgretolarsi della storia. O come creazioni umane, che sono state sfidate dalla natura. Oppure, come episodi che possono far sorridere e, insieme, inquietare. In grado di esprimere il diritto a una bellezza che non si lascia capovolgere nel suo contrario, questi frammenti riluttanti alla geometria si abbeverano alla sorgente della fugacità. Ponendosi sulla soglia tra l’ora e il non più, tra “l’eterno divenire dell’anima in lotta con se stessa e l’appagamento formale”, imprigionano la “forma presente del passato”, come scriveva Georg Simmel, secondo il quale le rovine non smettono di interrogarci, suscitando un effetto tragico, perché “la distruzione in esse non è qualcosa di assurdo che proviene dall’esterno, ma la realizzazione di una tendenza profonda nello strato d’esistenza […] di ciò che viene distrutto”.
Sullo sfondo di questa cornice teorica occorre iscrivere la visione pittorica e plastica di Vitali, i cui lavori, interrogando le rovine, mettono in luce il doloroso rapporto degli uomini con il tempo. Ah, il tempo. Che graffia, consuma, aggredisce, ci attraversa.