Corriere della Sera

Sep 2024

Giorgio Morandi

Nell'autunno del 2008, al Metropolitan Museum di New York, una mostra organizzata in collaborazione con il Ministero della Cultura italiano rivelò agli americani la grandezza e la poetica di Giorgio Morandi. Il pubblico, estasiato, ammirava i suoi capolavori. In quei dipinti, così silenziosi ed equilibrati, non c'era traccia di autorappresentazione, voyeurismo, spacconeria o esibizionismo plateale, nulla che richiamasse i valori dell'Italia del quarto governo Berlusconi. Da dove proveniva il magnetismo di quei quadri? E perché i newyorkesi ne erano tanto affascinati? Non c'era traccia di Mediterraneo, di azzurro oltremare, di sole o di Rinascimento: solo una luce tenue e polverosa racchiusa nel familiare rettangolo della tela, che illuminava senza filtri bottiglie, vasetti e fiori, sospesi nel colore e disposti con un rigoroso equilibrio compositivo. Lo stupore derivava dal fatto che questi piccoli oggetti sembravano possedere una vita indefinita, costantemente separati dalla nostra conoscenza del mondo. Eppure, riaffermavano la loro presenza nel reale, pur essendo distaccati dalla cronaca della quotidianità.

Il tempo è, dunque, il vero "timbro" di Morandi: un ordinario distacco dalla realtà, ma anche un'azione meditata e consapevole per rimanervi ancorato. Morandi è un pittore del tempo, in senso assoluto, come lo fu Piero della Francesca. Tuttavia, rispetto alla precisione prospettica del maestro toscano, la sua aritmetica è più rarefatta, ortogonale, e non prevede profondità spaziale, nemmeno quando dipinge il paesaggio. Gli bastano campiture ferme che studia e ricerca in silenziosa concentrazione, smuovendole dall'interno con l’andirivieni delle pennellate, come se passeggiasse nel colore che impasta direttamente sulla tela, alla ricerca di un tono e una cadenza.

La sua pittura è un flusso lento che non si trattiene mai, segue il ritmo pendolare del respiro, come passi lungo un sentiero. Non accelera, non si ferma: va e viene sulla superficie porosa della tela, che partecipa anch'essa della sostanza luminescente e opaca di un pigmento che diventa via via più sordo, fino ad arrestarsi in un locus coeruleus, protetto dal mistero della pittura.

Il suo gesto, ripreso nella contemporaneità da Luc Tuymans, proviene dalla visione panteistica di Cézanne, dalla riservatezza intima di Chardin, e sfiora Corot e Bonnard. Approda, con calma, a una sostanza olistica, ontologica ed etica che ingloba tutto di lui: vita, segno, pittura, abitudini, amicizie. Il suo stile è la concretizzazione della rinuncia all'apparenza. Segue linee rettilinee sempre identiche e parallele a se stesse, come nelle sue acqueforti, capolavori di maestria calcografica, che per importanza rivoluzionaria possono essere paragonate solo a quelle di Rembrandt. Sono morsure che scavano gradazioni di grigi in una rete segnica intricata e cristallina, mai interrotta da cedimenti, lacerazioni, o guizzi eclettici ingannevoli.

Forse, per comprendere appieno chi fosse e chi è, basta immaginarlo seduto al tavolo dell'incisore, più che davanti al cavalletto, intento a tracciare la prima linea sulla lastra: la prima d’infinite rette, prolungate da un respiro paziente, funzionale allo "yoga" dell'acquaforte, come forma suprema di concentrazione della mente e del corpo, volta a escludere l'ego per poi richiamarlo a una forma autentica e impersonale di Autoritratto, rappresentato dalle sue bottiglie.