La Repubblica
2013
Velasco nella foresta delle città invisibili
Lea Mattarella
E’ andato alla ricerca delle città scomparse nel mondo nel corso del tempo. E le ha trasformate in visioni. Ventuno grandi tele delle stesse dimensioni, allestite alla Triennale in una grande sala come un'unica installazione, o come le pagine di un libro da sfogliare, sono ilrisultato di questo viaggio tra luoghi perduti di Velasco Vitali. La mostra Foresta rossa, a cura di Luca Molinari e Francesco Clerici (catalogo Skira), prende il nome da un episodio drammatico come quello avvenuto a Chernobyl.
Gli abitanti raccontano che tutta la vegetazione del parco di Pripjat dopo l'esplosione del reattore nucleare si è tinta di rosso, come fosse il suo ultimo grido. E la città che non c'è per Velasco è anche la giostra di quel giardino lì, quel color vermiglio su cui nessun bambino potrà più sedersi. Ma questa geografia di posti abbandonati, non è interpretata da Velasco in chiave malinconica. La sua pittura vitalissima che alterna la densità materica alla leggerezza ed è capace di tessere mura e torri, campanili e scale,
ed esercit di piccole case agglomerate e brulicanti grazie a un colore utilizzato sempre in maniera sintetica e all'uso di linee che nascono da un gesto potente, rivendica il disordine come luogo ideale per nascere. O magari rinascere.
Così ti viene in mente Calvino quando parla di una delle sue Città invisibili: «Come veramente sia la città sotto questo fitto involucro di segni, cosa contenga o nasconda l'uomo esce da Tamara senza averlo saputo».
Difronte alle tele di Velasco (e ai testi che raccontano la storia di ogni luogo di Clerici) senti che non si sta parlando solo di architetture ma di vite interrotte e ricominciate chissà dove.
Così si ha la sensazione di essere stati accolti in un racconto fantastico. In cui non si può conoscere, ma si deve immaginare. Di fronte a ogni quadro c'è una sedia che invita il visitatore a sostare lì davanti. Per scoprire i segreti della pittura, ma anche per fantasticare su quelli di chi un giorno ha abitato quello spazio.
Gli abitanti raccontano che tutta la vegetazione del parco di Pripjat dopo l'esplosione del reattore nucleare si è tinta di rosso, come fosse il suo ultimo grido. E la città che non c'è per Velasco è anche la giostra di quel giardino lì, quel color vermiglio su cui nessun bambino potrà più sedersi. Ma questa geografia di posti abbandonati, non è interpretata da Velasco in chiave malinconica. La sua pittura vitalissima che alterna la densità materica alla leggerezza ed è capace di tessere mura e torri, campanili e scale,
ed esercit di piccole case agglomerate e brulicanti grazie a un colore utilizzato sempre in maniera sintetica e all'uso di linee che nascono da un gesto potente, rivendica il disordine come luogo ideale per nascere. O magari rinascere.
Così ti viene in mente Calvino quando parla di una delle sue Città invisibili: «Come veramente sia la città sotto questo fitto involucro di segni, cosa contenga o nasconda l'uomo esce da Tamara senza averlo saputo».
Difronte alle tele di Velasco (e ai testi che raccontano la storia di ogni luogo di Clerici) senti che non si sta parlando solo di architetture ma di vite interrotte e ricominciate chissà dove.
Così si ha la sensazione di essere stati accolti in un racconto fantastico. In cui non si può conoscere, ma si deve immaginare. Di fronte a ogni quadro c'è una sedia che invita il visitatore a sostare lì davanti. Per scoprire i segreti della pittura, ma anche per fantasticare su quelli di chi un giorno ha abitato quello spazio.