La Stampa
2013
Velasco a caccia delle città fantasma
Marco Vallora
Pripjat. A leggerlo cosi pare il nome, piuttosto, d'un dio terribile d e universo sanscrito, di quelli che s'incontrano nel saggi, tipo l'Ardore, di Calasso. E invece, forse ci siamo dimenticati anche questo, è il nome qualunque, trapanato-trascinato via, in un oblio stipato di macerie straziate, d’uno di quegli efficienti villaggi-satelliti saprofiti, concretizzati militarmente intorno alla luttuosa città di Cernobyl, con il suo fumante lascito-strascico fosforescente di morte tarlata. Come in un film del terrore, come in una versione moderna della storia della cedevole moglie di Lot, che fugge e si volge sventuratamente indietro, salgemmandosi di terrore, anche gl'uomini imbestialiti dal furioso vento avvelenato di morte, che proveniva dal prossimo reattore nucleare V. Lenin (Pripjat era il ricovero notturno dei costruttori della stessa Cernobyl) scappando e volgendo si indietro per un ultimo sguardo di biblico panico, videro le foglie dei ricchi, ipocriti giardini di compensazione sociale, tingersi immediatamente di rosso sangue. Come in una parodia accelerata del Deserto rosso antoniniano. «Quella macchia vermiglia impressa nella retina, cui diedero poi nome: La foresta rossa, fu l'ultima immagine pulsante della propria città», cancellata da ogni carta geografica. Lo spiega Francesco Clerici, il Borges che ci porta per mano (azzoppati e radiosi edipi della presuntuosa cecità urbanistica contemporanea) in mezzo a queste coloratissime e cariate rovine. Clerici insieme a Luca Molinari (che ragiona, non a caso, non sontuoso catalogo Skira, della maledizione d’un ecolalica babele utopico-architettonica moderna, che questi spettri avevano la «felicità» di banche, giardini, piscine, bordelli) ha curato quest’infiammante mostra di Velasco Vitali. La mostra invade di luce e di acrilici sangui una reinventata sala della Triennale di Muzio, inoculata d’un caldo chiarore zenitale, che quasi vuole accecare e combattere il virtuosistico strapotere cromatico e materico di Velasco.
Lo stesso Velasco spiega che Clerici è il suo assistente di studio: nel pozzo vorticante e paradossalmente salvifico di Wikipedia & C., ha lavorato con lui a ripescare, dal letame della «damnatio memoriae», il profilo cancellato e la materia sfatta di ben «416 città fantasma del mondo», terremotate, sommerse, ma abitate, radiate, smentite, Un romanzo. Infatti, attenzione, abbiamo detto Borges, perché Clerici ha anche sapienti guizzi di scrittura, ma è già fi troppo, perché tutte queste storie sono maleficamente verissime e «registrate», e non ha nulla d’immaginario, tipo manuale visionario alla Gianni Guadalupi. Per cui lasciamo gli uggiosi riferimenti prevedibili all’invisibilità di Calvino! Perché quello materia lutulenta ed incancrenita, che proviene spirticamente da sepolcri urbanistici sepolti, dell’Angola come della Turchia, della Mongolia come dal Capo di nessuna Buona Speranza, è come se, schizzando e sbarellando, fosse rimbalzata, in questa piscina probatica, fin entro le tele ingozzate e strangolate e «scarcassate» di Velasco.
Maestro anche, riconosciuto (in un altro salone, ove domina una lunga tavolata, da «ultima cena»-design milanese) di posseduti e manieristicamente «sprezzanti» schizzi preparatori: per un’annosa e progressiva immersione, in apnea, entro il lutto sfarzoso di morte & resurrezione della calcinata, pulciosa, regale materia pittorica. In cui persino i trucioli trafelati di lapis appena affettato, fan da concime all’immaginario in ebollizione. Questo anche pensando alla bellissima tavola recuperata da palestra, con ancor sopra il cappellino-canestro, oldenburghiano, della pallavolo (la pittura va a segno) o quella corolla-insetto, a morsicatura d’ideogrammi leggeri, alla Michaux, che ci accoglie all’entrata, quasi un mantra cromatico, un mandala. Ed è invece una ruota dentata-volano, che gronda di tutto il sangue inutile della cosi poco propagandistica, poco cheguevaeiana, Foresta Rossa del morire, abitando.