A immagine e somiglianza
Col quinto giovane, col quinto “asse”, si resta sì, sulle rive, ma d’un altro e ben più famoso lago. Velasco Vitali, viene, infatti, da Bellano; vieni di là e là resta; per storia, vita e lavoro; viene egli, dunque, dalla parte più alta di “quel” ramo. Anche se, di manzoniano, in lui è, forse, restano soltanto il maniacale bisogno di finitezza e, l’altro, d’inseguire tutti i dettagli per poi nasconderli o, addirittura, seppellirli, dentro il murmure dell’insieme;dell’immobilità, anzi, dell’insieme; nella quale, solo rifacendo la sua stessa operazione, quei dettagli noi riusciremo a cogliere e ridefinire, ridestandone così l’elitrale, continuo ronzio.
Ma qual’è l’insieme di Velasco?
Un titolo, v’è, fra quanti designano i fogli qui esposti, che esprime quello che ci sembra esserne il segreto centro espressivo. Tale titolo dice:”reliquie”. Si tratta d’un centro espressivo da cui Vitali parte e a cui ritorna senza soste, come se il cammino consistesse in una sottilissima, infinitesimale conferma e riconferma che tutto, nella vita, che tutto nell’esistenza, è in effetti, povero, dolce, triste e miserando reliquato.
Forse, nei suoi occhi, fin da quand’era bambino, s’è fissato ciò che l’onda dell’amatissimo lago, dopo le furie di qualche tempesta, depositava sulla riva. E quelle immagini, per ridotte, per minime che possano essere state – un ramo, un indumento, un fuscello, una piuma, la buccia d’un frutto – devono aver assunto in lui una sorta di capacità suntuaria della decadenza, non solo lacustre, ma cosmica, del tutto: e del finire, di tutto, in un suo breve, derelitto segno, in una sua breve, derelitta orma.
Ora questo sembra essere accaduto in lui con tale, ossessiva, umida e delicata fascinazione da farsi misura stessa dell’interità dell’esistere e del suo eventuale, primo e ultimo “valore”. Non è un riduzione; o, forse, è sì, una riduzione, ma per giungere a una condensazione, dentro quei resti, dentro quei reliquati, di ciò che li fa degni di venir amati e adorati; di venir considerati, appunto, non più reliquati, ma “reliquie”.
Nessuna condensazione, come quella che riconduce ogni interrogativo, ogni ansi, ogni gloria, ogni felicità, ogni ritmo, persino ogni chiamo della vita, ogni suo più umile cedimento, ogni suo più impercettibile ictus, permette (e, anzi, esige) la perquisizione millimetrale (e il connesso, millimetrale e funebre sadismo) di tutto vedere, tutto toccare e tutto sezionare; anzi (se mi si passa il gioco di parole che, gioco in effetti, non è, bensì soltanto poetica constatazione di un metodo) di tutti morti-sezionare.
L’esigenza connessa ad un simile permesso (e a un simile mandato) è la formazione (forse, addirittura, la neoformazione; pronunciata, qui, in senso timidamente, ma altresì minacciosamente anatomico e medicale) degli strumenti necessari a porlo in atto. Com’è naturale, il primo, fra tali strumenti, è il supporto su cui il reliquato preso, di volta, in volta, in esame, si farà forma; diventerà, cioè reliquia; da conservare, meditare, amare, venerare e adorare. Vitali è in perpetua ricerca di supporti che siano essi stessi reliquati.
Non v’è nulla, in lui d’estetistico, nella scelta di cartoni, legni e fogli vecchi, usati, macchiati, smangiati, spesso disegnati da chissà quale mai altra ed antica mano: anche se, con la stessa chiarezza, v’ha detto che v’è in lui, nel far questo, una grande, esasperata tensione verso ciò che i francesi, intraducibilmente, chiamano “morbide”; e che forse poi potremmo tentare di riferire (sic) stato di permanente patologia psicologica. Insomma, affinché i reliquati diventino reliquie, a Vitali è necessario che tra le sue matite, i suoi acquarelli, le sue tempere, i suoi inchiostri, le sue gomme, i suoi polpastrelli e i suoi bulini, insomma fra tutto il suo armamentario di mezzi e di supporti, non si stabilisca nessuna conflittualità; ha anzi bisogno che tra essi si stabilisca un’assoluta complicità.
Allora la reliquia non sarà più deposta sul legno, sul foglio o sul cartone (come accade alla più parte di quanti sembrano tentare strade similari), ma nascerà, piano, piano, dal supporto, poiché anche il supporto è, a sua volta, nulla più che reliquato; e, dunque, reca in sé tutti i segni, le trame, le tracce, le macchie, i rilievi, le depressioni, i nervi, l’ombre e le luci necessarie a far sì che l’altro reliquato, quello cioè che di volta, in volta, Vitali sceglie (sia esso frammento d’ossa, tronco, carcassa d’uccello, fiore o viso umano) trovi la condizione indispensabile per formularsi come escrescenza visibile, muffa formale, come millimetrale resurrezione che inglobi in sé anche il supporto; sì che, a opera compiuta, tra reliquia disegnata e reliquia su cui s’è disegnato, non esista più nessun lato.
Ciò che una simile poesia crea infallibilmente attorno a sé è una quantità di sospetti, d’intercambiabilità e di fusioni; in prima istanza, tra reliquia-supporto e reliquia-immagine; poi, via, via, tra le reliquie umane e quelle vegetali o animali, che le singole opere parrebbero separatamente esporci o ostenderci. Ma tali sospetti, per un ammiccamento, che e poi uno psichico scentramento dell’artista, non si lasciano mai catturare.
Ma qual’è l’insieme di Velasco?
Un titolo, v’è, fra quanti designano i fogli qui esposti, che esprime quello che ci sembra esserne il segreto centro espressivo. Tale titolo dice:”reliquie”. Si tratta d’un centro espressivo da cui Vitali parte e a cui ritorna senza soste, come se il cammino consistesse in una sottilissima, infinitesimale conferma e riconferma che tutto, nella vita, che tutto nell’esistenza, è in effetti, povero, dolce, triste e miserando reliquato.
Forse, nei suoi occhi, fin da quand’era bambino, s’è fissato ciò che l’onda dell’amatissimo lago, dopo le furie di qualche tempesta, depositava sulla riva. E quelle immagini, per ridotte, per minime che possano essere state – un ramo, un indumento, un fuscello, una piuma, la buccia d’un frutto – devono aver assunto in lui una sorta di capacità suntuaria della decadenza, non solo lacustre, ma cosmica, del tutto: e del finire, di tutto, in un suo breve, derelitto segno, in una sua breve, derelitta orma.
Ora questo sembra essere accaduto in lui con tale, ossessiva, umida e delicata fascinazione da farsi misura stessa dell’interità dell’esistere e del suo eventuale, primo e ultimo “valore”. Non è un riduzione; o, forse, è sì, una riduzione, ma per giungere a una condensazione, dentro quei resti, dentro quei reliquati, di ciò che li fa degni di venir amati e adorati; di venir considerati, appunto, non più reliquati, ma “reliquie”.
Nessuna condensazione, come quella che riconduce ogni interrogativo, ogni ansi, ogni gloria, ogni felicità, ogni ritmo, persino ogni chiamo della vita, ogni suo più umile cedimento, ogni suo più impercettibile ictus, permette (e, anzi, esige) la perquisizione millimetrale (e il connesso, millimetrale e funebre sadismo) di tutto vedere, tutto toccare e tutto sezionare; anzi (se mi si passa il gioco di parole che, gioco in effetti, non è, bensì soltanto poetica constatazione di un metodo) di tutti morti-sezionare.
L’esigenza connessa ad un simile permesso (e a un simile mandato) è la formazione (forse, addirittura, la neoformazione; pronunciata, qui, in senso timidamente, ma altresì minacciosamente anatomico e medicale) degli strumenti necessari a porlo in atto. Com’è naturale, il primo, fra tali strumenti, è il supporto su cui il reliquato preso, di volta, in volta, in esame, si farà forma; diventerà, cioè reliquia; da conservare, meditare, amare, venerare e adorare. Vitali è in perpetua ricerca di supporti che siano essi stessi reliquati.
Non v’è nulla, in lui d’estetistico, nella scelta di cartoni, legni e fogli vecchi, usati, macchiati, smangiati, spesso disegnati da chissà quale mai altra ed antica mano: anche se, con la stessa chiarezza, v’ha detto che v’è in lui, nel far questo, una grande, esasperata tensione verso ciò che i francesi, intraducibilmente, chiamano “morbide”; e che forse poi potremmo tentare di riferire (sic) stato di permanente patologia psicologica. Insomma, affinché i reliquati diventino reliquie, a Vitali è necessario che tra le sue matite, i suoi acquarelli, le sue tempere, i suoi inchiostri, le sue gomme, i suoi polpastrelli e i suoi bulini, insomma fra tutto il suo armamentario di mezzi e di supporti, non si stabilisca nessuna conflittualità; ha anzi bisogno che tra essi si stabilisca un’assoluta complicità.
Allora la reliquia non sarà più deposta sul legno, sul foglio o sul cartone (come accade alla più parte di quanti sembrano tentare strade similari), ma nascerà, piano, piano, dal supporto, poiché anche il supporto è, a sua volta, nulla più che reliquato; e, dunque, reca in sé tutti i segni, le trame, le tracce, le macchie, i rilievi, le depressioni, i nervi, l’ombre e le luci necessarie a far sì che l’altro reliquato, quello cioè che di volta, in volta, Vitali sceglie (sia esso frammento d’ossa, tronco, carcassa d’uccello, fiore o viso umano) trovi la condizione indispensabile per formularsi come escrescenza visibile, muffa formale, come millimetrale resurrezione che inglobi in sé anche il supporto; sì che, a opera compiuta, tra reliquia disegnata e reliquia su cui s’è disegnato, non esista più nessun lato.
Ciò che una simile poesia crea infallibilmente attorno a sé è una quantità di sospetti, d’intercambiabilità e di fusioni; in prima istanza, tra reliquia-supporto e reliquia-immagine; poi, via, via, tra le reliquie umane e quelle vegetali o animali, che le singole opere parrebbero separatamente esporci o ostenderci. Ma tali sospetti, per un ammiccamento, che e poi uno psichico scentramento dell’artista, non si lasciano mai catturare.
in Artisti e Scrittori, Torino, Umberto Allemandi & C., 1984