Testori/Velasco
È un giovane artista, scoperto proprio da Testori negli anni Ottanta a ripercorrere con le sue immagini gli inseguimenti e le volate del Pessina e del Consonni; si chiama Velasco e le sue origini, pur se più spostate (bellanesi) possono essere certo familiari al “regno” testoriano dell’Assina. Forse di connaturato c’è certamente quell’idea dell’acqua, quel lago come fossa e muschio, quel tendersi metafisico dalle rocce all’acqua in un colore verdastro, fosco, che rimanda più che a viste lariane a quella pozza boschiva del Segrino. E dal Velasco Vitali, per quella forza estrema che ha voluto imporre nelle sue visioni, al paesaggio innanzitutto, ci si sarebbe aspettati l’incursione dentro questo “regno”, un disvelamento di quegli scorci che saettano nel racconto (“…il lago continuava a venir su, oltre le case, i campanili, le fabbriche, nel fumo che veniva fuori dai battelli”. “Ecco, il lago adesso era giù, oltre il Dante che avevo quasi ripreso…).
Sorprendentemente i pastelli accentrano l’occhio sul ciclista: non il Pessina, non il Consonni, ma il Pessina, il Consonni e il Sessantanove, il Franco, il Nino, quelli della “Vigor”, quelli della “Milanesi” e quelli della “Bianchi”. E privilegiano non già la figura intera, ma il particolare, quasi a sottolineare la fatica, lo sforzo, quella tensione che vibra in tutto il libro. Certamente questo parallelo Testori/Velasco, senz’altro arduo da realizzare, eppur riuscitissimo, trova vigore proprio nel non connaturarsi come operazione illustrativa di un racconto. Velasco rivive il mondo di Testori, ma cerca di non dare ad esso il carattere della definitività. Si può parlare di evocazione, ma anche questo termine è poco adatto: forse si tratta solo di recuperare la possibilità di un lampo espressivo prodotto dalla forza della parola. Questa “tentazione” può aver svolgimento pieno proprio nel momento in cui il pittore “tradisce” e “sfida” lo scrittore, quando la distanza permette di riunificare i due linguaggi.
Proprio per una fedeltà al Dio di Roserio Velasco ha cercato una posizione autonoma, innanzitutto scegliendo di scindere i due piani testoriani che nel racconto s’inseguono, fino a compenetrarsi: la figura umana e il paesaggio. Velasco propone l’immagine del ciclista a sé, in varie posizioni, addirittura cerca di isolare i particolari: una gamba, le teste o di accentrare l’attenzione sulle varie posizioni, strisciando col pastello linee che sembrano sfrecciare, accentuare il movimento. Incide i segni di questo “Dio di Roserio” trasversalmente: lo ferma nei momenti della tensione forte, cerca di rendere evidente, in questo suo percorrere “il corpo del ciclista”, quell’atto della determinazione massima, quando il Pessina chiede un limone e lo afferra tra i denti. Già in quest’immagine è contenuto lo stremo, la necessità di continuare, la forza e l’impeto, ma al contempo anche la sfida alle proprie possibilità.
A questa serie di immagini, contrappone, quasi come sorprese o improvvise apparizioni, certi squarci di paesaggio: il lago, cartelli stradali, pali del telefono che s’alzano da un nero fermo, strisciati da un rosso fluorescente, periferie. Il paesaggio diventa così una sorta di trama che non sembra intaccare il corpo del ciclista, vissuto in una solitudine assoluta, proprio perché l’impresa, quella della gara, sembra, innanzitutto, uno svelamento di se stessi.
Eppure vi è un’altra distanza che sembra far deflagrare il rapporto, eppur per contrasto, intensificarlo: il racconto di Testori, tra sudate, mutandine che appiccicano e strade polverose, è arso dal sole; i pastelli di Velasco s’incupiscono dentro una sorda cappa di nero, quasi a voler sottolineare la durezza della fatica: lampeggiano solo i colori delle maglie o dei paesaggi, in cui la luce si disfa a raccogliere ombre notturne, linee o indicazioni, che sembrano, sul nero, nient’altro che scintille o lampi.
Sorprendentemente i pastelli accentrano l’occhio sul ciclista: non il Pessina, non il Consonni, ma il Pessina, il Consonni e il Sessantanove, il Franco, il Nino, quelli della “Vigor”, quelli della “Milanesi” e quelli della “Bianchi”. E privilegiano non già la figura intera, ma il particolare, quasi a sottolineare la fatica, lo sforzo, quella tensione che vibra in tutto il libro. Certamente questo parallelo Testori/Velasco, senz’altro arduo da realizzare, eppur riuscitissimo, trova vigore proprio nel non connaturarsi come operazione illustrativa di un racconto. Velasco rivive il mondo di Testori, ma cerca di non dare ad esso il carattere della definitività. Si può parlare di evocazione, ma anche questo termine è poco adatto: forse si tratta solo di recuperare la possibilità di un lampo espressivo prodotto dalla forza della parola. Questa “tentazione” può aver svolgimento pieno proprio nel momento in cui il pittore “tradisce” e “sfida” lo scrittore, quando la distanza permette di riunificare i due linguaggi.
Proprio per una fedeltà al Dio di Roserio Velasco ha cercato una posizione autonoma, innanzitutto scegliendo di scindere i due piani testoriani che nel racconto s’inseguono, fino a compenetrarsi: la figura umana e il paesaggio. Velasco propone l’immagine del ciclista a sé, in varie posizioni, addirittura cerca di isolare i particolari: una gamba, le teste o di accentrare l’attenzione sulle varie posizioni, strisciando col pastello linee che sembrano sfrecciare, accentuare il movimento. Incide i segni di questo “Dio di Roserio” trasversalmente: lo ferma nei momenti della tensione forte, cerca di rendere evidente, in questo suo percorrere “il corpo del ciclista”, quell’atto della determinazione massima, quando il Pessina chiede un limone e lo afferra tra i denti. Già in quest’immagine è contenuto lo stremo, la necessità di continuare, la forza e l’impeto, ma al contempo anche la sfida alle proprie possibilità.
A questa serie di immagini, contrappone, quasi come sorprese o improvvise apparizioni, certi squarci di paesaggio: il lago, cartelli stradali, pali del telefono che s’alzano da un nero fermo, strisciati da un rosso fluorescente, periferie. Il paesaggio diventa così una sorta di trama che non sembra intaccare il corpo del ciclista, vissuto in una solitudine assoluta, proprio perché l’impresa, quella della gara, sembra, innanzitutto, uno svelamento di se stessi.
Eppure vi è un’altra distanza che sembra far deflagrare il rapporto, eppur per contrasto, intensificarlo: il racconto di Testori, tra sudate, mutandine che appiccicano e strade polverose, è arso dal sole; i pastelli di Velasco s’incupiscono dentro una sorda cappa di nero, quasi a voler sottolineare la durezza della fatica: lampeggiano solo i colori delle maglie o dei paesaggi, in cui la luce si disfa a raccogliere ombre notturne, linee o indicazioni, che sembrano, sul nero, nient’altro che scintille o lampi.
in Giovanni Testori e Velasco, Il Dio di Roserio, Periplo Edizioni, Lecco, 1994