2001
Ferdinando Scianna

Velasco è pittore, io faccio il fotografo. Velasco viene dal lago di Como, io dalla Sicilia. Che cosa mai poteva farci incontrare, giustificare che io ne scrivessi? 
E’ quello che mi sono chiesto quando comuni amici me lo suggerivano. 
Tra le mie vaste incompetenze annovero la pittura. E non certo per mancanza di amore. Un poco, per lunga passione, so, forse di grafica. Ma quella è un’altra cosa: la carta, gli acidi. 
Da anni, comunque, vado dicendo che la fotografia ha più a che fare con il teatro, la letteratura, l’inconscio, che con la pittura. 
Anzi, che questa malintesa filiazione e corrispondenza ha fatto danni a entrambe. La molla, infatti, che mi ha spinto a saperne di più su Velasco, e poi a incontrarlo, è stata letteraria e, tanto per cambiare, aveva a che fare con la Sicilia. Uno può tentare fughe tutta la vita e quella Sicilia continua a saltarti fuori da ogni dove. 
Quest’uomo del lago, questo pittore del nord, si è innamorato della Sicilia, mi hanno detto, prepara due grandi mostre con quadri dipinti nell’isola. 
Così ho incontrato una persona appassionata e la sua appassionata pittura. 
Così è venuto fuori che una volta, parecchi anni fa, aveva rubato un libro di foto mie sulla Sicilia per regalarlo ad un amico. I fili si vanno intrecciando. Magari questo mio testo gli varrà la punizione per quel peccato. 
Ma forse non gli avrei inflitto le mie chiacchiere certo superflue sul suo lavoro se subito non mi avesse detto che la cosa che lo ha sconvolto in Sicilia, e ancora non se ne capacita, è il colore del cielo. 
Di uno specialissimo blu, o azzurro o no si sa qual altro indefinibile colore. 
Qualcosa di simile, se non ricordo male, lo aveva detto De Staël a proposito dei cieli siciliani. 
Poi Velasco mi ha mostrato i quadri e ho capito che cosa intendesse. Quei cieli, nella sua pittura, cercando il proprio colore, sono diventati quasi neri, spessi, cinerei, come se l’abbaglio del sole, riflesso dai campi, dai paesi, dalle città, li avesse accecati. 
Sono sempre rimasto stupito dalla luce apollinea, abbagliante delle fotografie della Sicilia, in genere del sud d’Europa, fatte dai fotografi del nord. A me , ripeto spesso, il sole interessa perché proietta ombre dure e nette, perché provoca lui stesso la sua negazione e istalla il dramma, la contraddizione insolubile… Quella Sicilia così luminosamente serena non la riconosco. La mia Sicilia è nera. La luce e il lutto, secondo la formula di Gesualdo Bufalino, in Sicilia si danno la mano. Quella di Velasco pure l’ho vista, sentita nera. L’ho riconosciuta. 
Questo riconoscimento mi ha provocato sorpresa, imbarazzo, gratitudine. 
La sorpresa, per questa consonanza di sentimento visivo, che è poi quello che trovo nei pittori, scrittori, fotografi siciliani che amo. 
L’imbarazzo, come ogni volta che ti accorgi che la presunta impenetrabilità siciliana, impenetrabilità che i siciliani coltivano come orgogliosa autodifesa contro l’incomprensione e il disprezzo, è un nostro mito. La gratitudine, perché in fondo vogliamo scoprirlo falso questo mito gattopardiano, desideriamo essere compresi e, chissà, persino amati. Che entrare in un paesaggio, nella qualità della sua luce significhi entrare anche nella vicenda umana di uomini e donne che di quegli spazi e la luce sono figli, che quel paesaggio hanno costruito nel tempo lungo della storia. Velasco lo ha sentito perfettamente. Infatti insieme hai paesaggi, come se da quei paesaggi inevitabilmente imponessero di essere rappresentati, compresi, penetrati escono le persone, che si accampano anche come personaggi, dei suoi intensi ritratti. 

 

in Isolitudine, Charta, Milano 2001, catalogo della mostra