2011
ARMANDO TORNO

In un passo del Vangelo di Giovanni, Gesù, dopo aver dato un boccone a Giuda Iscariota, gli dice: “Quello che devi fare fallo al più presto” (13,27). È un momento cruciale dell’ultima cena. Gli apostoli non capiscono, credono che sia una questione legata alla cassa che il traditore gestiva, forse addirittura pensano sia stato incaricato di comperare qualcosa per la festa.
Giuda esce, i discorsi si infittiscono, si consuma quell’ultimo incontro. Gesù, ricordano i vangeli sinottici, istituisce l’eucarestia. Noi, forse per effetto dell’affresco di Leonardo custodito nel refettorio di Santa Maria delle Grazie a Milano, siamo soliti immaginare il tavolo con al centro Gesù e gli apostoli accanto. Gesti, posizioni, persino la dinamica delle figure sono calcolabili attraverso funzioni matematiche.
Tutti hanno un loro significato, un posto quasi fissato all’inizio dei tempi, e ogni mossa prelude al miracolo che sta per compiersi con il pane e il vino. Ma se per l’esegesi biblica del tempo di Leonardo gli invitati alla cena del Signore non erano ancora usciti dal cenacolo e, attraverso la fede e la Chiesa, continuavano a riflettere su un gesto che ha sconvolto la storia, ai nostri giorni è difficile dire cosa succeda in quella sala che Marco e Luca descrivono situata al piano superiore, grande e addobbata. Forse in questo luogo è entrata più gente di quanta ne sia stata chiamata, forse ora esso si presenta vuoto.
Velasco sceglie quest’ultima ipotesi. Il tavolo della cena del Signore è nudo, non ci sono alimenti, mancano le persone; i discepoli chissà che fine hanno fatto, Gesù non c’è. Soltanto un cane ha guadagnato la scena e dinanzi a lui si vedono i frammenti di quel pane trasformatosi poi nel corpo di Cristo. Proprio un cane, essenziale nel suo schema, con il boccone davanti. Il bianco domina l’ambiente. È un abbraccio cromatico che si può intendere, a seconda dello sguardo, ora simbolo del vuoto, ora un accorgimento per descrivere l’infinito.
La coena dei latini indicava il pasto principale, che veniva servito quando il lavoro era ultimato e che poteva perciò prolungarsi nella serata. Era uno spazio per ritrovarsi e per conoscersi, oltre che per nutrirsi, nel quale il tempo aveva poca importanza. Nell’ultima cena queste caratteristiche ci sono tutte. Dobbiamo immaginarla con i discorsi, il rumore delle stoviglie, i colori della tranquillità. Ma è proprio questo il punto: che cosa resta per il mondo contemporaneo di quell’incontro a Gerusalemme? L’eucarestia – in greco significa “riconoscenza” e “ringraziamento” – che nei primi secoli del cristianesimo diventa il centro della fede e della cultura, commuove
ancora il mondo? Lo turba sempre come in quella notte che precedette la Pasqua?
Prima di tentare una risposta, osservate cosa è rimasto del cenacolo in questo quadro di Velasco. Gli apostoli non ci sono, Gesù nemmeno. La grande sala addobbata è ora spoglia. Il miracolo lo dobbiamo immaginare attraverso l’aiuto di altre scene conservate nella memoria. Le parole proferite in quel luogo si sono forse perse nel bianco. Un cane, l’animale fedele per eccellenza, è l’unica presenza di vita. Tutti se ne sono andati come Giuda perché avevano da fare o perché non erano più interessanti a quanto stava accadendo? La cena di Gesù fonda il cristianesimo, noi la stiamo disertando. Non perché non crediamo al miracolo o a un messaggio d’amore che si fa carne e sangue, ma per il semplice fatto che ha vinto la nostra indifferenza. In quella sala è entrato il mondo, ma ora è difficile trovare qualcuno. O forse quel pasto miracoloso si è smarrito nella contemporaneità e non riusciamo più a capirlo? Come si fa a rispondere? Velasco vi offre la scena così come si presenta oggi. Il resto, o meglio quel resta del celebre incontro, si può cercare soltanto attraverso la fede.