1993
Maurizio Cecchetti

Essere romantici, o “nuovi romantici”, non è una colpa. Anzi, in questi tempi pervasi di idee sempre più gelide, di “moralismi” disposti a raffreddare – o meglio, “freddare” con imparzialità chirurgica – quel poco di emozione che ancora resta: la carne e il sangue che, diceva un sociologo americano, oggi sono meno reali della celluloide. E si vede, ora, quanto fosse profetico. […] 
[…] Mi sono trovato una sera di marzo, a fare un “gioco” con Velasco e Alain Toubas. Si dovevano scegliere i quadri per questa mostra. Tronchi cavi e scorticati, oppure levigatissimi, fino a dissolversi nell’aria; ceppi di colore raggrumato e incrostato; felci e magnolie su fondi ardenti della luce di un sole ormai disceso. 
Non era lo spazio di Velasco che conoscevo, quello, per esempio, stretto nella colata fredda del disastro valtellinese, che inscena l’estremo spaesamento dell’uomo della natura che cancella ciò che vive. 
Alla sorpresa, quella sera, si univa una inquietudine insolita della mia testa. Sì, la testa, sottoposta alle rotazioni volute da una misteriosa forza magnetica emanata dai quadri. Potrà sembrare strano, ma la nostra discussione non era solo o soprattutto sugli accordi cromatici e materici e tematici a cui attenersi per dare unità alla mostra. Mi ritrovavo continuamente con la testa piegata nelle posizioni più scomode e strane; il pittore mi osservava silenzioso e stupefatto mentre andavo verso uno dei suoi tronchi, lo rigiravo: prima su un lato, poi rovesciandolo a testa in giù, mi allontanavo per guardare l’effetto, e così con tutti gli altri, fino a vedere che qualcosa nell’opera mutava, illuminando uno spazio diverso, mostrando una sorta di chiara duplicità. Velasco, giustamente, protestava sostenendo che lui il quadro l’aveva firmato in bella evidenza su un lato, e certo non avrebbe acconsentito ad appendere l’opera in altro verso da quello in cui l’aveva dipinta. Giusto. Vero, e mi scuso con Velasco per questa involontaria tortura, è colpa di quella “convinzione di segretezza” che spesso anima i critici davanti all’opera d’arte, convinzione che vi sia in ogni opera un altro mondo da scoprire, magari “girando” il quadro. E devo confessare che se ora ne scrivo qui è perché alla fine non mi sono arreso: rivedendo le fotografie di questo catalogo ho riprovato a fare il “gioco”, e credo di poter intuire i motivi di quel torcicollo di marzo: guardo i pioppi, le betulle, il salice e il platano di Velasco, vedo tronchi d’albero deposti su fondi “fangosi”, terragni, ed è difficile dire fino a che punto oggetto e sfondo siano distinti. Giro e rigiro le foto, e improvvisamente scopro un paesaggio, un paesaggio compiuto. Ruoto i due “faggi” e lentamente appare un orizzonte piatto, come quello di un enorme distesa d’acqua su cui si riflette un cielo freddo, che non saprei dire se aurorale o già disposto alla notte. Il “platano”trasfigura una catena montuosa che chiude uno spazio lacustre, plumbeo e profondo. Il “grande pioppo” è un volo d’uccello su un paesaggio pianeggiante fratturato dalle montagne. “Betulla” è la visione di una notte oscura, come quella che sommerse la Valtellina. […]. 

[…] Mi pare che nella sua pittura prema qualcosa di più inquietante, che si poteva già sentire nelle opere precedenti di paesaggio, e che ora sembra ridefinirsi con un cambio per così dire dimensionale, nel senso con cui il termine definisce nell’arte un valore di armonia o viceversa di precarietà, di totalità oppure di solitudine dispersa, di compiutezza o invece di inconclusa frammentarietà. […] 
[…] si nota piuttosto un avvicinamento a ciò che prima era nell’ombra, impastato o sepolto nelle pieghe materiche del cosmo lombardo. 
Non c’è più metafora in queste “cose” in Velasco. Tutta la realtà è presente nel quadro, manca ogni divisione o dipendenza simbolica tra la “parte” e il “tutto”. E’ il nostro sguardo a compiere dall’interno quella “rotazione” che riscopre la compresenza di entrambi nell’opera, distinti e uniti. […] 
[…] Si aprono letture diverse e confronti talvolta sconcertanti anche per il critico: Come si accordino certi tronchi o ceppi o radici di vibrante e scorticata matericità, con gli ultimi “faggi” fatti per così dire “ di niente”, di lievissime stratificazioni tonali, che appaiono con quella lentezza di definizione che appartiene all’immagine che dal bagno fotografico diventa sensibile sulla carta; come, dunque, si concilia questa ”differenza materica” è problema che Velasco pone al critico, e che non mancherà di essere notato da chi cerca nell’arte una coerenza di fenomenologia stilistica. Non so se si possa considerare questo movimento che Velasco imprime alla sua pittura come un punto di svolta; azzardo dire che, forse, il pittore sta cercando di scindere da sé una identificazione troppo diretta e automatica, e quindi poco profonda, col proprio retroterra: mi chiedo, insomma, se non voglia infrangere lo schema consueto per cui essere terragni e lombardi significa sempre e comunque esprimersi “in materia”, con un colore fisico e informale, che vuole rappresentare l’irriducibilità dell’esistenza. 
Non rinnega niente, Velasco, figurarsi i suoi ceppi bellanei . E mentre stringe il campo ottico dal panorama al particolare, l’artista apre l’orizzonte semantico della sua pittura. […] 
[…] Evitando una ovvia trasfigurazione iconologia, Velasco inietta in quelle fibre vive una resina indurente, che pietrifica i tronchi e tutto quanto vi trovava rifugio: muffe e parassiti, bave e germogli. Tutto si fissa, anche la morte che, lì, viene sorpresa al lavoro, bloccata a uno stadio che mostra tutta la sua corrosiva avidità. 
Quei tronchi feriti e consunti tornano a noi da un tempo lontano; dalle nevi disciolte riappaiono, come l’uomo di Similaun, illuminando la disperata ma suprema resistenza di una realtà vitale, che, pur infinitamente piccola, lotta, irriducibile, contro la dispersione e l’abbandono. 

 

in Velasco, Compagnia del Disegno, Milano 1993, catalogo della mostra